Da 20 anni la Pastorale dei migranti svolge un lavoro prezioso in diocesi: cresce la sensibilità delle parrocchie e aumenta il desiderio degli stranieri di inserirsi nelle comunità locali. Intanto occorre non abbassare la guardia nei centri di ascolto e intervenire anche a titolo personale per sostenere le famiglie che spesso vivono situazioni di disagio e povertà
di Luisa Bove
Redazione
«La migrazione, per prima cosa, colpisce la famiglia e ne separa i componenti», afferma don Giancarlo Quadri, responsabile della Pastorale dei migranti in diocesi, «dalla separazione poi non si sa ciò che può nascere. Una cura pastorale delle famiglie noi la chiediamo da diversi anni e la si sta attuando».
«Diverse famiglie di immigrati», scrive il cardinal Tettamanzi nel nuovo Percorso pastorale, «sono ormai ben inserite all’interno delle nostre comunità e spesso offrono un’esemplare testimonianza di fede, di spirito di sacrificio e di apertura alla vita»…
Ogni giorno noi tocchiamo con mano la presenza di famiglie che vengono a chiedere di costituire gruppi di spiritualità familiare, ne abbiamo ad esempio nelle comunità dell’America Latina e Filippine: tutte sentono come primo desiderio quello di coltivare, approfondire e rinnovare il senso della famiglia, anche nei momenti difficili della migrazione. E sono davvero tanti.
La situazione all’interno della Chiesa è migliorata?
Alcuni anni fa nelle parrocchie c’era un po’ di prevenzione verso l’accoglienza degli stranieri, dovuta al fatto che le comunità sono spesso “assalite”. Ma quando ho iniziato a parlare ai nostri sacerdoti e ai gruppi familiari esistenti nelle parrocchie delle condizioni della famiglia immigrata abbiamo visto cambiare atteggiamento. Credo che l’argomento familiare sia provvidenziale, nonostante tutti gli attacchi alla famiglia, anche nella nostra società in cui purtroppo si è affievolita l’attenzione. Questo tema è quello che ci richiama di più a una presenza del Signore in mezzo a noi e quindi al bellissimo esempio che ci viene dato dalle stesse famiglie immigrate.
Uno dei problemi che l’Arcivescovo individua nei genitori di oggi è la difficile conciliazione tra lavoro e famiglia. Una difficoltà che devono affrontare anche molti stranieri che ora abitano a Milano. Quali suggerimenti possono venire anche dalla Chiesa ambrosiana?
Qui tocchiamo il nocciolo della questione, perché spesso parliamo di famiglia o di ricongiungimento familiare… ma se la famiglia non riesce a provvedere alle esigenze immediate di sopravvivenza, è chiaro che poi tutto diventa molto più difficile. Quali suggerimenti? Io direi che non dobbiamo fare altro che seguire la bellissima “tradizione ambrosiana”. Io non credo che si possa trovare altrove quello che è stato fatto in questi 20 anni nella diocesi di Milano come aiuto nel campo del lavoro, della casa, dell’educazione dei figli… I centri di ascolto, che a volte si sentono un po’ stanchi, hanno fatto un lavoro enorme e questo deve continuare, non dobbiamo abbassare la guardia sulle esigenze prioritarie per una famiglia.
Purtroppo sono ancora molte le situazioni di «disagio» e di «povertà materiale e spirituale» (famiglie divise, coniugi abbandonati, nuove unioni, lavoro saltuario e irregolare…). Al di là di ciò che tocca alle istituzioni c’è però qualcosa che possono fare da subito le comunità parrocchiali?
Senz’altro. Non solo le comunità, ma anche il singolo. Occorre risvegliare e sviluppare il senso dell’accoglienza e dell’amicizia. Molte volte siamo un po’ prevenuti verso gli immigrati, eppure una mano sulla spalla, un sorriso, un saluto possono veramente evitare tante tragedie. Purtroppo la situazione delle famiglie immigrate non è la più rosea, anzi, possiamo citare centinaia e centinaia di casi… Nei giovani il tema dell’aborto per esempio è terribile anche nella nostra città, però do un suggerimento ai singoli e alle comunità parrocchiali: apriamoci a un’accoglienza cordiale, che sia prima di tutto del cuore, che sia un’apertura vera alla persona che incontriamo, poi l’aiuto materiale verrà non solo spontaneo e sarà anche molto più gradito dagli stessi bisognosi.
Esistono in diocesi cammini di preparazione al matrimonio rivolti in particolare agli stranieri oppure le coppie di fidanzati già frequentano i corsi organizzati nei decanati?
Non sono molti quelli che frequentano direttamente i corsi di preparazione al matrimonio, però sono in aumento. Di solito preferiscono avere momenti di incontro che siano il più possibile condivisi, quindi anche nella lingua e nelle tradizioni. Noi ad esempio dobbiamo organizzare ogni anno nelle comunità straniere due corsi per fidanzati, anche se il nostro impegno è quello di inviarli sempre di più nelle realtà parrocchiali e decanali. Tant’è vero che nelle comunità dove la lingua lo permette (per esempio quelle latinoamericane) noi non celebriamo più matrimoni, ma inviamo i futuri sposi alle parrocchie. Certo il numero sta crescendo, ma non bisogna avere fretta ed è importante percorrere le strade giuste. La sensibilità delle parrocchie e il desiderio degli stranieri di inserimento sta decisamente aumentando.