L'Arcivescovo ha visitato l’area pediatrica e ha incontrato il personale, in un momento di dialogo e confronto sui temi della lotta al Covid e del ruolo dei medici e degli infermieri nell'assistenza ai più fragili
di Annamaria
BRACCINI
Un’eccellenza italiana, punto di riferimento internazionale per l’ortopedia e la traumatologia, una macchina straordinariamente complessa articolata in tre presidi, quello ospedaliero vero e proprio, il Cto e il Polo riabilitativo “Fanny Finzi Ottolenghi” (questi ultimi dislocati in diverse zone della città, rispetto alla modernissima, ma storica sede di via Pini). È l’Asst Centro specialistico Ortopedico Traumatologico Gaetano Pini-CTO che l’Arcivescovo visita – accolto dal direttore generale Paola Lattuada – dialogando nell’aula magna con medici, vertici e personale della struttura.
Dopo aver incontrato i piccoli ospiti del Reparto pediatrico che ospita bambini e ragazzi, affetti da patologie ortopediche, anche oncologiche e da malattie reumatologiche, con i loro genitori, l’Arcivescovo risponde alle tante domande poste dai clinici, preparatisi anche attraverso una serie di approfondimenti di esegesi biblica sul Libro di Giobbe.
Sono presenti, tra gli altri, il responsabile del Servizio di Pastorale della salute don Paolo Fontana e i cappellani delle tre realtà del Centro, don Simone Fioraso, don Giuseppe Buraglio e don Claudio Dell’Orto, cui si aggiungono suor Michelina Iannuzzi e il diacono permanente Mario Sfligiotti.
Nato dall’intuizione del medico livornese Gaetano Pini nel 1874 per curare i bimbi rachitici della città, oggi il Centro offre oltre 5000 prestazioni ambulatoriali annue, 8000 interventi (proseguiti anche in tempo di Covid) e chirurgia riparativa dei tessuti ossei. È inoltre sede della Banca regionale del tessuto muscolo-scheletrico, dove sono riuniti tutti i tessuti donati e utilizzati nell’insieme degli ospedali lombardi.
Dalle conseguenze del tempo pandemico, dalle sfide che attendono il mondo ospedaliero e «dall’umanizzazione della cura, un tema che ci sta molto a cuore, specie in questo momento di cambiamento del sistema sanitario e di difficoltà a reperire il personale», come dice Giovanni Pavesi, direttore generale Welfare di Regione Lombardia, si avvia il dialogo.
La riflessione dell’Arcivescovo
Rispondendo al direttore sociosanitario Anna Maria Maestroni, che si interroga sul «senso della sofferenza e l’intenzione della cura», l’Arcivescovo sottolinea: «Questa domanda mi sembra inevitabile per chi, ogni giorno, vive accanto ai malati. Per me, come prete, è ulteriormente provocatoria, perché quando la malattia è grave e si prolunga, emerge il pensiero di dove sia Dio. Io mi sono convinto che la sofferenza non ha nessun senso, che noi non siamo fatti per soffrire, per questo dobbiamo trovare tutti i modi per evitarlo, ma dobbiamo sapere che l’esistenza ha comunque un senso anche quando si soffre».
Come vivere allora questo significato, «allorché sembra che la vita sia limitata, minacciata, compromessa?». Comprendendo che la sofferenza può diventare un’occasione per amare. «In questo avere relazione con i pazienti può aiutare a diventare migliori. Sono convinto che ogni professione, specie la vostra, abbia bisogno di una spiritualità, di una necessità di fare i conti con se stessi. Questa è una condizione per esercitare il prendersi cura di sé, non per una sorta di egoismo, ma per far emergere il meglio. Non a caso, alcuni malati ammettono che la sofferenza sia stata una possibilità di porsi domande, di accompagnare altri, di approfondire il senso dell’esistenza. E questo vale per tutti: gli infermieri, il personale, i medici possono vivere il rapporto con i malati, al di là dei protocolli e della tecnica, come un’occasione. Una macchina non può prendersi cura degli altri, le persone sì».
Poi, la domanda delle domande: «Perché il dolore innocente?»: «Non esiste una risposta e non serve cercare colpe». Anche perché nella malattia, «si può addirittura praticare una relazione con gli altri che costruisce la persona, laddove il morbo la distrugge. Se cerchiamo, anche nella sofferenza, di amare e di aiutare gli altri, capiamo che siamo fatti per qualcosa di grande. È come l’uva che, proprio perché è schiacciata, produce vino buono. Talvolta, i giudizi dell’umanità sono deprimenti e pessimisti, ma, in posti come questi, ci si può stupire della grandezza dell’umanità».
Il pensiero non può che andare al reparto pediatrico appena visitato. Uno spazio allestito nel segno dell’accoglienza, con ambienti coloratissimi, un’area ludico-didattica, una piccola biblioteca con libri per l’infanzia, donata dall’associazione “Il Sorriso di Matilde” e la presenza di un maestro della Scuola in Ospedale che garantisce la continuità degli studi anche durante il periodo del ricovero.
In un luogo famoso nel mondo per la riabilitazione del corpo, chiaro il riferimento anche alla «riabilitazione» dei sentimenti: «Noi riusciamo ad attraversare il deserto perché ci sono delle oasi. È determinante il rapporto con i colleghi, una comunicazione con sé e con gli altri che fa crescere e non riduce a essere macchine da lavoro. Il rischio che la sanità sia organizzata come un’azienda, con esigenze di profitto e non di servizio, impone equilibrio. Bisogna cercare di ordinare le emozioni – non si può vivere senza emozioni – con la ragionevolezza, e non con una specie di corazza fatta di logoramento e di indifferenza, specie quando si ha la responsabilità della cura».
Il richiamo è a un sano rapporto con il lavoro e i suoi tempi, così come l’Arcivescovo scrive anche nella sua Lettera dedicata agli operatori sanitari, Dovrebbero farLe un monumento, che lui stesso dona al termine dell’incontro: «Se non serve solo curare, ma prendersi cura, occorrono i tempi e le condizioni per poterlo fare. La formazione, che è essenziale per il giusto aggiornamento tecnico-scientifico, lo è anche ma per sviluppare una capacita relazionale». Questa la consegna.