La semplicità e l'affabilità del Cardinale morto il 5 agosto 2017 nel ricordo di don Umberto Bordoni, suo segretario durante l'episcopato milanese: «Era capace di entrare in contatto con gli altri manifestando tenerezza e prossimità»
di Annamaria
Braccini
«Il primo ricordo privato del Cardinale riguarda la chiamata telefonica che ricevetti da lui: ero sulle spiagge siciliane, in vacanza con il gruppo giovani dell’oratorio di Assago, quando mi chiamò direttamente, chiedendomi se potevamo incontrarci. Iniziò così l’avventura che mi mise al servizio dell’Arcivescovo e che in qualche modo cambiò la mia vita. Fin dall’incontro che ebbi nei giorni successivi a Genova, il suo tratto che si rivelò in maniera immediata fu quello della familiarità: una persona molto semplice, che venne personalmente ad aprirmi la porta e ad accogliermi». A dire così è don Umberto Bordoni, segretario dell’arcivescovo Tettamanzi per tutto il suo episcopato milanese, oggi direttore della Fondazione Scuola Beato Angelico.
Questa semplicità fu confermata nella vostra frequentazione dal 2002 al 2011?
Certamente. La stessa semplicità che il Cardinale viveva negli incontri nelle parrocchie caratterizzava la vita quotidiana della famiglia arcivescovile, soprattutto nei momenti del pranzo e della cena, quando si poteva scambiare qualche battuta. Era un uomo dedito al lavoro, brianzolo in tutti i sensi: al ritorno dalle Visite pastorali si metteva subito alla scrivania per preparare l’omelia per il giorno seguente, non concedendosi quasi alcuno spazio per il riposo.
Tra le tante iniziative del Cardinale vi fu l’edizione del nuovo Evangelario ambrosiano, affidata ad artisti della transavanguardia. Una scelta coraggiosa per un Vescovo già avanti con l’età…
Il Cardinale era un uomo di straordinaria apertura. Quando incontrò gli artisti per iniziare l’avventura dell’Evangeliario, consegnando nelle loro mani il libro dei Vangeli, l’unica cosa che disse fu: «Coraggio!». Questo stesso atteggiamento l’ho constatato quando si trovava di fronte a qualche contestazione o fatica: era capace di sorridere, di ascoltare quello che veniva detto senza lasciarsi scuotere, ma guardando avanti con fiducia. Mi piace ricordare un particolare. Mancavano ormai pochi mesi al termine del suo mandato e mi permisi di dirgli: «Eminenza, forse questa questione può lasciarla al suo successore; adesso manca poco…». Rispose solo: «È mio dovere assumermi la mia responsabilità».
Fu chiamato il Cardinale «delle mani», che stringeva a centinaia in ogni sua uscita pubblica. Era davvero così profonda la sua attenzione per la gente?
Sì, aveva una capacità di ascolto, di memoria, di empatia umana, di entrare in contatto con gli altri, anche in pochi minuti, manifestando sempre un volto di tenerezza e di prossimità. Aveva anche una discrezione immensa, custodendo le confidenze ricevute e possedendo un grandissimo equilibrio nell’ascolto, nel dare pareri, nell’accogliere le varie istanze. Questo tema della pastoralità, che ripeteva spesso, non era semplicemente una maniera umana di accostarsi alle persone, ma un modo di vivere il Concilio Vaticano II. Si è visto nel passaggio dalla Familiaris Consortio ad Amoris Laetitia: entrambi documenti che riflettono in qualche modo il sentire del cardinal Dionigi, molto spesso, non a caso, consulente pontificio. Questo tratto di mitezza e di elasticità nel lasciarsi condurre dallo Spirito, che parla attraverso il Vangelo, le persone e le situazioni concrete, mi sembra un’eredità preziosa che ci ha lasciato e un’applicazione meravigliosa di quello che Ignazio chiamava il «sentire cum Ecclesia».
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