Il senso dello studio nel contesto di quello più ampio della vita, il rapporto con il mondo adulto, le difficoltà del post-Covid: questi i temi al centro del confronto tra l’Arcivescovo e gli universitari al Conservatorio
di Annamaria
Braccini
L’impegno nello studio, l’ansia da prestazione, il rapporto difficile con gli adulti (genitori, ma non solo), la paura di perdere l’unitarietà e l’interiorità della persona di fronte alle sfide di un mondo di oggi sempre più frammentato. Non sono domande da poco quelle che alcuni studenti hanno rivolto all’Arcivescovo, dialogando con lui presso il Conservatorio di Milano.
Accolto da ragazzi e ragazze, dal presidente del Conservatorio Raffaello Vignali, dal direttore, il maestro Massimiliano Baggio, da docenti e rappresentanti del personale tecnico-amministrativo, l’Arcivescovo dialoga per quasi due ore, rispondendo agli interrogativi e ascoltando i due intermezzi musicali eseguiti dai giovani allievi. Il saluto di benvenuto – presenti anche il vicario episcopale di Settore don Mario Antonelli, il cappellano del Conservatorio don Simone Lucca e diversi altri cappellani di realtà accademiche cittadine – viene porto da don Marco Cianci, responsabile della Sezione universitaria della Pastorale giovanile, che sottolinea le parole «casa» e «musica», pienamente valorizzate in una realtà come Il Conservatorio, dove lo studente non è solo un numero di matricola tra altre migliaia, potendo sperimentare la bellezza dell’arte e dell’armonia nei suoi stessi studi.
Proprio da una domanda sulle possibilità di uno studio «in uscita, che aiuti andare verso gli altri, al servizio del bene comune», si avvia il confronto dal titolo «Semplicità e complicazione», ispirato da una frase di Anne H. K. Lenzmeier.
Lo studio “in uscita” e il rapporto con gli adulti
«Lo studio ha diversi aspetti. Uno che è utilitaristico per imparare una competenza, ma che, comunque, ha in sé una tensione ad appassionarsi per un argomento; quindi è una sorta di uscita, perché spinge a renderci utili agli altri. Ciò che siete capaci di fare, in questo senso, è funzionale a ciò che siete capaci di offrire – nota subito l’Arcivescovo -. C’è poi un aiutarsi a vicenda nello studiare e anche questa è una forma di uscita, ma forse la cosa più interessante è che lo studio è amore per la verità, rendendoci uomini e donne migliori, che, così, possono essere un sostegno per gli altri. Lo studio utilitaristico, comunitario e come passione, sono un modo per interrogarsi anche sul senso della vita e di Dio».
La seconda domanda è relativa al rapporto con il mondo degli adulti: «Talvolta gli adulti incoraggiano all’ansia da prestazione o esasperano alla competitività – non nega monsignor Delpini -. Magari per la gratificazione della famiglia che si aspetta qualcosa di eccellente, per cui i giovani, più che vivere la loro vita di studio, studiano per un pubblico: tuttavia mi sembra che siano molti di più coloro che insegnano una scuola di realismo, anche se qualche volta gli adulti sono complessati e rinunciatari, sentendosi tagliati fuori dalla vita dei giovani con una rottura generazionale. Io credo che sia necessario praticare l’arte, un poco dimenticata, della conversazione con i genitori e con quella risorsa tanto importante che sono i nonni. Non si tratta di fare una chiacchiera con la banalità dei luoghi comuni, ma di ascoltare e di interessarsi a quanto gli altri dicono».
Infine, il suggerimento di leggere, per ritrovare tra le pagine di un volume, la vita e l’esperienza di maestri: quelli che per l’Arcivescovo (citati espressamente) sono stati per esempio Dostoevskij, Marshall, Pomilio, Manzoni, Leopardi.
Affrontare con slancio il futuro
Insomma, «un libro è come un amico», specie davanti a tanti problemi di oggi e all’inquietudine di un mondo sospeso tra «tranquillità e disperazione, comfort zone e non senso», come spiega una giovane.
«Non penso che si possa vivere senza inquietudine. La libertà è sempre inquieta, non è un’inerzia, e in essa possiamo scoprire la felicità sia di essere amati, sia di amare. L’amore può essere un rischio, ma indica che, nel mondo, c’è una speranza. La promessa di una felicità affidabile non può che coinvolgere l’eterno, l’infinito, Dio. L’amore umano, sempre legato alla parola “quando”, è infatti quasi un appello alla necessità della vita eterna. Viviamo rivolti a qualcosa da raggiungere, siamo uomini e donne incompiuti che cercano il compimento. Questo può avere un percorso disastroso quando si punta a un obiettivo che diventa l’assoluto, per cui si è schiavi degli idoli, mentre siamo chiamati a vivere nella logica dell’essere amati e dell’amare. Questo è il nostro scopo nella vita. La rivelazione del mistero dell’amore comincia con la riconoscenza per la vita ricevuta che è la prima forma di conoscenza. Questo insinua una sorta di vocazione alla restituzione. Si vive per grazia e si può essere dono: questo alimenta la stima di sé».
Immancabile la domanda sulle difficoltà, specie giovanili, del dopo-Covid. Chiarissima la risposta di monsignor Delpini: «Gli ultimi anni ci hanno ferito, ma dobbiamo alzare lo sguardo. Vedendo il mondo dalla parte di chi vive in condizioni disperate, possiamo avere una maggiore proporzione del nostro soffrire. Siamo ripiegati con una specie di spirale che ci tira verso l’abisso, dobbiamo invece aprire i nostri orizzonti e, in questo, gli adulti che hanno coscienza e conoscenza possono aiutare i più giovani».
Tuttavia, non è solo questione di «geografia, ma anche e soprattutto di storia». Il richiamo è alla Milano distrutta dai bombardamenti, alla guerra e a chi, di fronte alle macerie e alla catastrofe che veniva dopo vent’anni di fascismo, si rimboccò le maniche: «Certo, noi abbiamo avuto il Covid, ma possiamo imparare dal passato, uscendo da quella sorta di ragnatela che ci scoraggia. Questo non è volontarismo, è la vita che chiama: affrontiamo la realtà con un po’ più di slancio. Abbiamo bisogno di qualche esperienza mistica, ossia di qualcosa – per me è stato spesso così – che ci dia gioia come un pellegrinaggio, un’amicizia vera che aiuta a essere migliori, che spinge a cambiare il mondo. Alla vostra età, l’amicizia e la mistica per me sono stati fondamentali», rivela il Vescovo.
L’ultimo interrogativo, sull’unità della persona, è posto dal presidente Vignali, che sottolinea l’importanza della presenza dell’Arcivescovo di Milano al Conservatorio, spesso non adeguatamente considerato, anche dalle istituzioni competenti, al pari di altre grandi realtà accademiche di eccellenza.
«L’unità della persona è data dalla vocazione. Il nome con cui Dio ci chiama dice la nostra verità: pensiamo a Maria salutata dall’angelo come “piena di grazia”. È da questa unitarietà personale – conclude l’Arcivescovo – che nasce un secondo aspetto. Siamo uniti come comunità perché siamo convocati come fratelli tutti, parte di una storia condivisa, figli di un unico Padre. Questa è la visione promettente che noi abbiamo da offrire al mondo».
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