Questo uno dei temi affrontati dal cardinale Scola nella conferenza stampa seguita al Pontificale. Ma l’Arcivescovo ha parlato anche della famiglia in vista del Sinodo, della situazione internazionale, del ruolo di Milano e dei prossimi “Dialoghi di vita buona”
di Annamaria BRACCINI
Tanti i temi, gli argomenti e gli eventi – con al “cuore” alcuni punti cruciali, concretissimi – da affrontare nella logica suggerita dalla Lettera pastorale presentata questa mattina in Duomo, di una cultura della fede, relativa, per esempio, alla «famiglia, con le problematiche scottanti che si collegano a tale questione su cui rifletterà il Sinodo – dice l’Arcivescovo nella conferenza stampa svoltasi al termine del Pontificale – Occorre un cambiamento di mentalità radicale. La cosiddetta politica familiare è stata fin qui un prendersi cura della famiglia, intesa come oggetto di cura anche da parte delle parrocchie. Essa invece essa deve diventare soggetto dell’annuncio di Cristo a partire dall’esperienza quotidiana. All’’interno di questo dato sarà possibile affrontare, allora, le grandi sfide, come quella delle famiglie ferite. Se viene meno tale impegno quotidiano della famiglia nel vivere ogni giorno in riferimento a Cristo, il cristianesimo perde forza». Non a caso, nella Lettera uno dei paragrafi è dedicato alla famiglia, con l’indicazione di ben diciotto modalità con cui tale soggetto può vivere un nuovo protagonismo, a partire dal ruolo dei nonni.
«L’autentica cultura della fede nasce dall’esperienza quotidiana, dal modo con cui affronto l’esistenza “portando fuori” la mia identità», aggiunge l’Arcivescovo che cita Giovanni Paolo II e il concetto, caro al Papa Santo, di una cultura dell’esperienza comune: «Ogni donna e uomo fanno cultura: infatti, i termini coltura, cultura e culto hanno la stessa radice. Questa “cultura” è stata a lungo alla base del costume condiviso che oggi si è, tuttavia, frantumato»
Il riferimento non può che essere al presente con i suoi drammi: «Ciò che è successo in Germania e in Austria è importante, perché testimonia che esiste un ultimo “costume di compassione”. Bisogna passare da uno schema di emergenza a una visione strutturale del fenomeno migratorio e questo chiama causa i soggetti che accolgono e coloro che arrivano, nella loro diversità, implicando diversità di compiti. La Chiesa fa molto, fa il buon samaritano, sostituisce il welfare nell’emergenza, cerca di porre un primo rimedio e dare un’accoglienza, ma ben altro è il compito delle Istituzioni, che devono elaborare una visone politica. Per quel che capisco, le decisioni della Merkel, di Hollande e dell’Austria, sono importanti perché mi pare che possano avviare proprio il passaggio dall’emergenza alla soluzione strutturale del problema. Bisogna ripensare il processo immigratorio, facendosi carico, in maniera diversa, della situazione africana, per quanto riguarda l’Europa, e facendo, come Italia, una politica mediterranea differente (avremmo dovuto farla da sempre, gestendo una leadership che, con la Spagna, abbiamo a livello appunto dei rapporti con il Mediterraneo). Bisogna fare una proposta politica organica: ora è importante trovare un’identità precisa ai profughi e a chi fugge dalle guerre, e nel futuro elaborare un progetto. L’immigrazione è un processo di meticciamento, di mescolanza che è in atto in tutto il pianeta: 800 milioni di persone sono in movimento». Infatti la Lettera pastorale si apre col ricordo personale di quanto l’Arcivescovo ha visto e toccato con mano a Erbil, con miglia di persone che in una notte hanno dovuto abbandonare le loro case e vivono ora in container a oltre cinquanta gradi: «Cristo con la croce ci pone di fronte al martirio, spesso cruento, e questo non si può dimenticare». Se i processi non possono essere fermati, possono però essere orientati. «Penso – scandisce Scola – che il meticciamento che riguarda anche l’Europa sia fondamentale dal punto di vista del configurarsi del nuovo cittadino europeo».
Anche la grande metropoli, in quanto tale, è tra i destinatari ideali – non potrebbe essere altrimenti – della Lettera: «Milano ha tutti gli elementi per autocomprendersi come metropoli, ma la frammentazione e la prova della povertà delle periferie non favoriscono quella presa di coscienza unitaria che ho chiamato anima», osserva in riferimento al Tavolo allargato a una ventina di esponenti della Milano dell’università, della cultura e dell’imprenditoria, promosso una ventina di giorni fa proprio dalla Chiesa ambrosiana per definire il significato e il Comitato scientifico dei “Dialoghi di vita buona”. «Tutti abbiamo convenuto che l’epoca moderna è finita, ma siamo meno che balbettanti sul futuro. Per questo abbiamo deciso di avviare, come strumento prettamente laico, i “Dialoghi di vita buona”. Parole come diritto, giustizia, solidarietà, amore, sofferenza, scienza, neuroscienze, bioingegnerie genetiche, che contenuto hanno? In questa situazione di fluttuazione, bisogna porre qualcosa di solido, dei pali, come le bricole di Venezia, che segnano la strada. Il narcisismo ha intaccato la vita, nel senso che anche per i cristiani vi è una difficoltà pratica di vedere il nesso tra la fede e l’azione quotidiana. Ciò colpisce soprattutto le generazioni di mezzo, tra i 30 e i 55 anni, che non sono contrari alla Chiesa, ma non capiscono più cosa abbia che fare Cristo con la loro vita. Non riusciamo così a proporre uno stile cristiano. Non dimentichiamo che quando il Papa parla della Chiesa in uscita intende un’uscita antropologica, sociale, “ecologica”. È impossibile che io apra la mia casa ai profughi o faccia volontariato con anziani e ammalati, senza pormi, almeno implicitamente, la domanda del perché e del per Chi lo faccio. Per esempio dovremo chiederci, tra qualche mese, quale è il contributo di Expo alla riflessione. La forza della carità immette nel fare che è essenziale per capire, ma questo deve essere fatto insieme. L’Italia è la società civile più avanzata, proprio per la sua ricchezza di associazionismo. Un capitale umano e sociale da valorizzare assai più di ora. Dobbiamo uscire dallo schema per cui la Chiesa è una cosa a parte rispetto alla società: nulla e nessuno è lontano, perché tutti siamo interessati dalle esperienze base della vita. Vita che ci è stata data e che dobbiamo donare a nostra volta. Ognuno deve sentirsi responsabile in prima persona anche nell’accoglienza».