Nel trecentesimo anniversario della sua nascita, analisi della riforma che il commediografo veneziano operò nel teatro italiano: dei personaggi della Commedia dell'Arte al carattere, dal primato dell'attore a quello del testo. Ma le maschere sono sopravvisute...


Redazione

Dalla maschera al carattere, dal primato dell’attore a quello
del testo letterario: così il commediografo veneziano operò
una radicale riforma all’interno della tradizione teatrale italiana.
Ma la Commedia dell’Arte, che lui giudicava ormai superata,
incarnava un patrimonio culturale che autori e interpreti
contemporanei hanno successivamente rivalutato.

di Sisto Dalla Palma
Presidente del Centro di Ricerca per il Teatro, Milano

Se per attualità si intende la capacità di un genere teatrale di rispondere alle attese di un pubblico, di cogliere i fermenti reali di una società, una capacità di questo genere la Commedia dell’Arte l’ha avuta per un certo periodo di tempo. Esattamente dalla seconda metà del Cinquecento sino all’avvento del Goldoni.

Già il Goldoni infatti riteneva, ed eravamo in pieno Settecento, che la Commedia dell’Arte non fosse più attuale, che questo genere di teatro fosse ormai decaduto, avendo perso la sua vitalità originaria. Secondo il commediografo veneziano ciò che restava sulla scena del suo tempo era ormai un vecchio deposito di intrecci, di lazzi, di schemi drammaturgici legati a una lunga tradizione di comicità popolare che si era cristallizzata in forme e procedimenti oramai desueti.

Secondo lui la sovrabbondanza di elementi scenici legati allo scambio di botte, di lazzi, di battute oscene, di giochi acrobatici, in un insieme di pratiche teatrali, di modelli interpretativi aveva fatto ormai il suo tempo. Su questa constatazione il Goldoni ripensò il destino del teatro e delle sue forme comiche, ben al di là del retaggio della Commedia dell’Arte.

La storia della sua riforma sta tutta qui: nella consapevolezza che fosse necessaria una svolta, rompendo con la tradizione teatrale italiana e assumendo come punto di riferimento l’eredità della commedia francese. In particolare di Molière. La riforma goldoniana muove dunque dal comico di situazione a quello di carattere, riplasmando il destino delle maschere e dei tipi fissi per dar vita a personaggi veri e propri, dotati di una loro individualità poetica e psicologica.

Questa riforma muove dunque dagli scenari e dai canovacci per radicare l’esperienza delle figure in scena in un orizzonte psicologico ben determinato, con dialoghi scritti, con una partitura drammaturgica più complessa e articolata. Arlecchino, Brighella, Pantalone, Colombina cedono il posto ai Quattro Rusteghi, a Sior Todaro Brontolon, alle Smanie per la villeggiatura e così via. Nel teatro italiano si determina una rivoluzione copernicana.

Ma come accade in ogni rivoluzione il superamento comporta anche il rischio di cancellare elementi forti nella tradizione teatrale italiana: e questo Gozzi l’aveva ben capito, se la diatriba che lo contrapponeva a Goldoni investiva proprio un’esperienza di straordinaria portata. In effetti la riforma goldoniana mette in crisi non solo gli aspetti più poveri e marginali della vecchia Commedia dell’Arte, ma indebolisce un patrimonio di forme, di invenzioni, di strutture drammaturgiche elementari legate al senso vivo del teatro. Anzi del teatro teatrale, che, libero dalle ipoteche della letteratura, si proponeva come esperienza della scena allo stato puro, come scrittura collettiva, in cui il dispositivo scenico complessivo dà origine a una macchina teatrale di grande forza e intensità.

Col Goldoni, dunque, al primato della scena, all’esperienza dell’attore inteso anche nella sua dimensione corporea, acrobatica, mimica, si sostituisce una nuova consapevolezza che ha nella letteratura drammatica il suo punto di elezione. Fu un bene o fu un male questa svolta impressa dal Goldoni? Difficile dirlo. O almeno è difficile dirlo da parte di chi ama il teatro allo stato puro, come espressione di funzioni primarie, come insieme di strutture e di archetipi essenziali non solo per la scena, ma anche per la vita.

E questo spiega come all’inizio del Novecento avvenga la ripresa della Commedia dell’Arte, con i maestri russi e tedeschi della scena. Sono queste correnti dell’avanguardia teatrale, che fra l’altro erano in contatto col teatro futurista italiano e con le sue performances, a riproporre l’eredità del Gozzi. Queste correnti tornano a spostare sulla scena il baricentro della teatralità.

La Commedia dell’Arte aveva visto una fortunata combinazione tra momenti letterari e momenti più apertamente mimici. Essa aveva e ha ancora molto da dire, laddove l’attore, e con esso lo spettatore, sentono il bisogno di una sorta di teatralità allo stato puro, di una forte caratterizzazione dell’espressività del corpo e di una scrittura scenica capace di collegarsi all’invenzione di un gruppo attorale piuttosto che alle invenzioni di un letterato, all’improvvisazione di un singolo o alla elaborazione di un ensemble capace di proporsi allo sguardo dello spettatore prima ancora che alla sua capacità di ascolto e di riflessione.

Di qui gli esiti di Decroux, di Marceau, di Dario Fo, di Leo De Berardinis, giù giù sino a Poli, ai veneziani di Pantakin, al gruppo napoletano della Querelle des Buffons. Mi viene in mente persino un certo Kantor, quello degli happenings, delle invenzioni parodistiche e sarcastiche che, ripristinando le ragioni del comico, sottopongono a una spregiudicata analisi in scena i fantasmi di una società e gli archetipi che emergono dal fondo oscuro della memoria. La maschera, nell’atto di occultare un volto, libera le tensioni del soggetto verso alcune domande nascoste sulla condotta umana.

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