Una riflessione del sociologo Aldo Bonomi per Il Sole 24 Ore

di Aldo Bonomi

Oscilla il pendolo della crisi verso l’uscita, la ripresa. Documentiamo come certosini ogni segno più dell’economia. In preda a profezie auto-avveranti, come se l’euforia del passato recente non avesse insegnato molto, nascondiamo sotto il tappeto i racconti sociali della crisi.
Fatta eccezione delle sceneggiature degne della società dello spettacolo. Se i vulnerabili si fanno attori della marginalità sul tetto di una fabbrica o su un’isola per diventare "famosi" si accendono le luci della tv. I microcosmi vanno per sussurri territoriali. Sia per storie di imprese che per racconti della vulnerabilità sociale che non fa spettacolo. Perché spesso non ha rappresentanza nelle corporazioni del lavoro e dell’impresa che giustamente si sono fatte sentire per tutelare i loro interessi e i loro iscritti.
Ci aiutano i numeri, dietro cui come sempre stanno storie di vita, del Fondo Famiglia Lavoro promosso dal Cardinale di Milano per aiutare con un contributo economico i tanti in difficoltà.

Ha erogato ad oggi 9 milioni di euro a sostegno di 3.000 famiglie della diocesi di Milano. Per chi, con un sorriso di sufficienza, pensasse alla solita iniziativa da beneficenza compassionevole, vorrei ricordare che le zone pastorali della diocesi di Milano insistono nel cuore produttivo del capitalismo italiano: Varese, Lecco, Monza, Sesto San Giovanni, Melegnano, Rho. I territori della città infinita che è ormai diventata l’area metropolitana milanese.
Capire chi sono i vulnerabili partendo dalla capitale finanziaria del paese è tutt’altro che una pura operazione di beneficenza compassionevole.
La storia e i numeri del Fondo da gennaio a settembre 2009, quando la crisi da finanziaria ed economica è diventata sociale, ci dicono che le famiglie beneficiarie, pochi mesi prima, erano forse in parziale difficoltà, ma non vivevano in situazioni di esclusione sociale.

I vulnerabili non sono marginali in sé. Lo diventano o rischiano di diventarlo nella crisi, per la perdita dell’occupazione, l’assenza per ampie fasce del mondo del lavoro di ammortizzatori sociali, di appropriati strumenti di protezione dai fallimenti di imprese e attività che sono anche progetti di vita. Abbiamo evidenziato e raccontato spesso il suicidio dei piccoli imprenditori che non ce l’hanno fatta. Il percorso del fondo di solidarietà evidenzia mappature territoriali di attività produttive in crisi e di nuova composizione sociale in difficoltà. Ai primi posti per domande di aiuto appaiono aree storiche dei distretti brianzoli del capitalismo molecolare: Cantù, Seregno, Desio (legno e arredo), Vimercate (con l’elettronica), Monza. Poi aree come Magenta, Saronno, Legnano, Busto Arsizio di antica industrializzazione in transizione verso il terziario di attività logistiche, di servizi distributivi e fieristici. Meno numerose le richieste e i beneficiari nel core metropolitano milanese. E soprattutto il tipo di professione evidenzia le dicotomie territoriali. I beneficiari sono infatti in larga maggioranza operai generici o pochi anche specializzati, nel settore industriale delle provincie di Monza, Varese, Lecco. Più della metà di quelli di Milano è impiegata in attività dequalificate dei servizi o in attività non ben precisate dell’economia informale. Emerge una mappatura significativa dei vulnerabili: per il 57,5% sono stranieri – il 21,4% sono occupati – il 66% operai – il 23,1% lavoratori dei servizi. La maggioranza dei vulnerabili appartiene anagraficamente all’età di mezzo. I giovani adulti dai 30 ai 39 anni e l’età intermedia tra i 40 e i 49 anni che insieme fanno il 76,5% dei richiedenti aiuto. Quel più della metà, di "stranieri" in difficoltà, ha aperto un dibattito sotterraneo nella rete territoriale del Fondo. Esempi di sincretismo sociale problematico su cui occorre riflettere. Se è vero che tra i segni positivi del pendolo per uscire dalla crisi segnaliamo la ripresa della domanda di forza lavoro immigrata da parte delle imprese. Poi, quando questa nella crisi precipita nel segno meno, applichiamo l’antico adagio «chi ha avuto ha avuto chi ha dato ha dato». Senza capire che quel dato, il 52,9% di domande da parte di stranieri che ne hanno beneficiato per quasi il 60%, rivela che nelle aree più economicamente avanzate del paese il cambiamento della composizione sociale del lavoro ha assunto caratteri strutturali. Prefigurando una inedita stratificazione che combina variabili di classe, di ceto, di nazionalità. I nuovi antichi lavori più vulnerabili di altri. Due terzi dei beneficiari sono infatti operai generici nel ciclo dell’industria della sub fornitura e dell’edilizia. Quelli per intenderci che costruiranno, quando partirà, l’Expo che verrà. Poi seguono i lavoratori non qualificati nei servizi, e un buon 15% assimilabile al lavoro dequalificato di impieghi saltuari o irregolari.

Infine sono solo il 5% i profili da impiegato, insegnante o di professionisti e dirigenti. Ma se hanno trovato il "coraggio della miseria" per rivolgersi al Fondo, questo la dice lunga anche sulla crisi del ceto medio. Perché se dividiamo tra stranieri e italiani il campione, gli stranieri sono più operai (71,5 %) e tra gli italiani il ceto medio in crisi raddoppia balzando all’11,5%. I numeri, che nascondono storie di vita, ci dicono anche perché l’oscillare del pendolo della crisi ci rende vulnerabili. Perché si è licenziati (735), per la fine di un contratto a termine (693), per cassa integrazione (323), per riduzione dell’orario di lavoro (153), per fallimento dell’attività in proprio (71) per essere in mobilità (52), per annunciato licenziamento a breve (21), per altro (265). Il Fondo Famiglia Lavoro del Cardinale Tettamanzi operando dentro la crisi svela un microcosmo fatto di nuova questione operaia e sociale, di una condizione migrante, di una difficoltà degli ammortizzatori e ci interroga su ritardi nella modernizzazione del nostro welfare.

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