Cento anni fa, in un momento travagliato della nostra storia moderna, veniva chiamato da papa Pio XI a guidare la Diocesi di Milano. Preceduto da figure come Ferrari e Ratti, e seguito da personalità come Schuster e Montini, l'arcivescovo originario di Busto Arsizio gode oggi di minor fama, ma i contemporanei ne conoscevano le doti e ne apprezzavano le qualità, pastorali e umane.
di Luca
FRIGERIO
Riposa in buona, e santa, compagnia, il cardinale Eugenio Tosi. La sua tomba nel Duomo di Milano, infatti, è fra quella di due beati, entrambi, come lui, arcivescovi della Chiesa ambrosiana: il cardinale Andrea Ferrari e il cardinale Ildefonso Schuster. Ma, come si può facilmente intuire, proprio l’eccezionale statura di quelle due figure, la loro forte personalità che ha dominato e pervaso i tempi nei quali furono rispettivamente pastori (senza dimenticare l’ambrosiano pontefice, Pio XI), ha per certi versi contribuito a mettere in secondo piano, se non in ombra, l’episcopato del vescovo Eugenio. Che un secolo fa, nel mese di marzo del 1922, veniva chiamato a reggere la cattedra di Ambrogio e Carlo.
Intendiamoci: non si vuole dire, manzonianamente, che il cardinal Tosi fu un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. Sarebbe irrispettoso e soprattutto ingiusto (e di ingiusti giudizi il povero arcivescovo dovette subirne diversi, negli ultimi anni della sua vita). Ma di fatto l’episcopato tosiano – di appena sette anni, quindi breve rispetto a quelli di Ferrari e di Schuster – apparve in qualche modo «interlocutorio» già ai contemporanei, mentre la sua memoria fu presto appannata, almeno a livello di storia «ufficiale». Rimanendo invece ben viva, affettuosa persino, in chi il vescovo Eugenio aveva potuto conoscere e apprezzare.
«Il cardinale della bontà»: ecco la definizione che più spesso è scaturita quando si è cercato di «inquadrarne» il profilo. Bontà di cuore, che faceva di Tosi un uomo generoso, sempre pronto a dare, fino al privarsi egli stesso. Bontà d’animo, che lo spingeva a vedere in ognuno, anche negli «avversari», anche in chi aspramente lo criticava, il fratello in Cristo. Bontà che qualche malfidente scambiava per semplice «bonomia» (o «benaltrismo», si direbbe oggi), e che era invece l’atteggiamento di uno spirito lieto e solare; di chi non fa pesare dall’alto la sua posizione e il suo ruolo, ma cerca la collaborazione e la condivisione; di chi non si impone, ma cerca di gestire e organizzare attraverso la delega e la fiducia. Tutte cose che negli autoritari anni Venti, a cominciare dal regime, ma anche in certi ambienti della Chiesa, non erano certo viste con favore…
Eugenio Tosi era nato a Busto Arsizio il 6 maggio 1864 e venne ordinato prete nel 1887. Mente pronta e brillante, dopo pochi anni passati come assistente nell’oratorio della sua città (i giovani, del resto, furono sempre al centro delle sue attenzioni, fino all’ultimo) entrò nel Collegio degli oblati missionari di Rho: una scelta pastoralmente ben motivata, per essere al servizio della Parola, attraverso la predicazione, innanzitutto. E che gli permise di «girare» la terra ambrosiana in lungo e in largo, conoscendone da vicino le comunità, le loro virtù, le loro fatiche, e i parroci ai quali erano affidate.
Lo sapeva bene proprio Achille Ratti, che subito, appena salito al soglio pontificio, come prima cosa si rivolse al suo ex allievo, con il quale era sempre rimasto in contatto e che, nel frattempo, era diventato vescovo di Andria, in Puglia, dopo esserlo stato a Squillace. Pio XI, infatti, aveva l’urgenza di trovare il suo stesso sostituto per la diocesi di Milano e gli sembrava che nessuno fosse più adatto di Eugenio Tosi: glielo scrisse, come si può leggere nelle lettere oggi conservate alla Biblioteca ambrosiana, con un tono che appare al medesimo tempo amichevole e perentorio.
Prima della fine del 1922 Tosi venne creato cardinale. Iniziava il suo ministero in tempi difficili, destinati a diventare sempre più complicati: l’eredità di lutti e devastazioni della Grande guerra, che avevano scosso anche il clero ambrosiano; le lotte operaie e le rivendicazioni sociali; la crisi economica e poi finanziaria, con tassi di disoccupazione altissimi; l’attacco degli ambienti anticlericali e massonici; e, soprattutto, l’affermarsi dell’estremismo fascista (nato proprio a Milano, nella piazza di San Sepolcro), dai gesti intimidatori alla marcia su Roma.
L’arcivescovo in tutto ciò difese i «suoi» ragazzi delle Associazioni cattoliche e per il resto cercò sempre di mediare, di smorzare, di far capire, di far vedere il bene in mezzo a tanto male. Gliene derivò una fama di «insipido», con accuse da una parte e dall’altra delle barricate. Oltretevere si cominciò a pensare che il cardinal Tosi, forse, non aveva abbastanza polso per una realtà come quella di Milano. E certe sue scelte, di libertà e di confronto, probabilmente furono interpretate come «avventurose», e tacciate di «modernismo».
Fu allora, nel 1926, che a Milano giunse l’abate Schuster come visitatore apostolico. Una visita che si protrasse per mesi e che si concentrò in particolare sulla gestione del Seminario di Venegono, allora in piena trasformazione. La salute già piuttosto compromessa di Eugenio Tosi – era malato di cuore – andò drasticamente peggiorando, e questo impediva al vescovo anche di esercitare la sua ordinaria attività pastorale, fra commenti e osservazioni a volte di poca carità cristiana.
Si spense il 7 gennaio 1929, dopo aver dettato un testamento spirituale che ancor oggi commuove e desta ammirazione. E quando, trent’anni più tardi, venne un papa di nome Giovanni, in tanti fra coloro che erano stati vicini al cardinal Tosi ebbero a dire: «È buono, proprio come fu il vescovo Eugenio».