Visitando alcuni Monasteri di clausura nel primo giorno dell’anno, l’Arcivescovo ha pregato per la pace da promuovere con audacia e nel dialogo tra le generazioni

di Annamaria BRACCINI

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La pace sconosciuta, perché, magari, non la si è mai potuta vivere; la pace rifiutata dalle bande armate che seminano morte e povertà, dalle dittature sanguinarie e da tutti coloro che rendono la terra inabitabile per conflitti insanabili; la pace dimenticata da chi, semplicemente, si volta dall’altra parte per non vedere gli orrori dei massacri degli altri, specie dei poveri.
Il 1 gennaio, nella Giornata mondiale che san Paolo VI, nel 1968, volle dedicare appunto alla pace nel mondo, l’Arcivescovo sceglie di affidare, in una sorta di orazione itinerante, la sua preghiera alle suore di clausura, sostando in 5 diversi monasteri milanesi – delle Carmelitane Scalze, delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua, delle Agostiniane e delle Clarisse – e celebrando l’Eucaristia con le religiose e i fedeli nell’abbazia dei Santi Pietro e Paolo in Viboldone, presso la clausura benedettina alle porte della città.

«Nel piccolo delle nostre relazioni quotidiane vogliamo pregare per la pace. Affidiamo ogni desiderio e speranza al Signore perché dove più buia e la sofferenza umana possa splendere l’arcobaleno della pace», dice, portando il benvenuto della comunità, la abbadessa, madre Anna Maria Pettoni. Ma perché pregare nei monasteri? A sottolinearne il senso è lo stesso vescovo Mario nell’omelia della celebrazione.

L’omelia

«La visita del pellegrino alla comunità monastica – dice, infatti, l’Arcivescovo, aprendo la sua riflessione – è come la visita del mendicante che viene a chiedere la carità in nome di Cristo. Chiedo la carità della preghiera. La preghiera per la pace purifica il cuore da un ripiegamento ossessivo su di sé, dal pericolo di rinchiuderci in noi stessi, dove la pandemia rischia di assorbire tutte le nostre preoccupazioni: è un momento per ricevere grazia dallo Spirito e prendere coscienza dei drammi tremendi di popoli in guerra, di società massacrate da conflitti insanabili, di territori resi inabilitabili dalla guerriglia, dal terrorismo, dalle bande armate che seminano morte e povertà, da dittature sanguinarie in Africa, in Estremo Oriente, in Centro e Sud America, nell’Europa dell’Est».
Una preghiera lontana dai palazzi del potere e che, forse anche per questo, si fa «dichiarazione della nostra impotenza», ma che vive del potere autentico che viene dall’affidamento al Signore.
«Che cosa possiamo fare noi, che non contiamo nulla in politica, in economia, nei luoghi del pensiero e del potere? Possiamo pregare, possiamo seminare speranza pregando, insegnando a pregare, invitando a pregare, facendo sapere che preghiamo», scandisce il Vescovo che pone accanto alla parola pace, quella di benedizione.
«Se volete dire qualche cosa da parte di Dio, comprendere e condividere il punto di vista di Dio sul suo popolo e sull’umanità, voi benedirete. La verità della vita del popolo e di ciascuno è questa: è benedetta da Dio. Se volete rileggere l’anno che è passato, se volete volgere lo sguardo all’anno che verrà e dire su questo una parola in nome di Dio dovete dire che questo tempo è benedetto da Dio».
Anche in un momento difficile per la pandemia, come l’attuale
«Se vuoi comprendere la verità della tua vita, non fermarti all’impressione, non accontentarti dei bilanci, non fare l’elenco delle soddisfazioni o delle frustrazioni, delle grazie o delle disgrazie. In ogni caso una cosa dice la verità profonda: la vita è benedetta da Dio».
Una benedizione che è una dichiarazione di alleanza e non una «una specie di assicurazione che protegge da tutti i pericoli, uno scudo protettivo che garantisce da ogni male, che mette al sicuro da ogni minaccia. Piuttosto è la promessa che in nessuna situazione, in nessuna tribolazione saremo abbandonati da Dio, l’alleato fedele. Perciò non il rimprovero, il lamento, l’indifferenza, ma siate fiduciosi sempre, siate audaci, costruite la pace e siate lieti».

Il riferimento al 55° Messaggio del Papa per la Pace

Il pensiero va, infine, al Messaggio nel quale papa Francesco raccomanda 3 attenzioni per edificare la pace: il dialogo fra le generazioni, l’istruzione e l’educazione, il lavoro da promuovere e da assicurare. «Io vorrei raccomandare la prima», conclude monsignor Delpini.
«Pregiamo per il dialogo tra le generazioni, perché non riusciamo a fare comprendere quanto sia drammatico e devastante lo spettacolo della guerra. Sentiamo il bisogno di un dialogo proprio perché i valori che abbiamo vissuto, i drammi che ci hanno segnato siano una strada per il confronto. Sentiamo la mortificazione di non riuscire a trasmettere ai giovani di oggi la fede, l’ardore, l’amore che ha ispirato la nostra vita, l’esperienza, la sapienza che è maturata nel tempo, la persuasione che la vita sia una vocazione, le sofferenze drammatiche e le devastazioni che la guerra ha prodotto anche nella nostra città, anche nella nostra Europa. Ignorando la storia si ripeteranno gli errori e gli orrori; tagliando il rapporto con le radici, le generazioni che vengono saranno smarrite».
«“Dialogare – come scrive il Papa – significa ascoltarsi, confrontarsi, accordarsi e camminare insieme. Favorire tutto questo tra le generazioni vuol dire dissodare il terreno duro e sterile del conflitto e dello scarto per coltivarvi i semi di una pace duratura e condivisa. Se, nelle difficoltà, sapremo praticare questo dialogo intergenerazionale «potremo essere ben radicati nel presente e, da questa posizione, frequentare il passato e il futuro In questo modo, uniti, potremo imparare gli uni dagli altri».
«Che non si dimentichi il dramma dei popoli della terra, che il nostro ripiegamento non ci renda meschini e ottusi»

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