L’Arcivescovo ha visitato nella Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni 4 monasteri di clausura femminili a Milano. «Preghiamo affinché nessun giovane sia ridotto a essere un soprammobile insignificante»
di Annamaria
Braccini
“La vita si ha solo se si dà”. Le parole di papa Francesco nel suo Messaggio per la 58° Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, risuonano più volte nella chiesa del Monastero di Clausura “San Benedetto”, in centro a Milano, che l’Arcivescovo visita come seconda tappa del suo percorso attraverso diverse realtà claustrali, dopo essere entrato nel Monastero delle Clarisse e prima di recarsi nel Convento delle Agostiniane e, infine, delle Carmelitane Scalze. 4 luoghi nel cuore della metropoli che sono altrettanti «punti cardinali di preghiera», come dice, nel saluto di benvenuto, la priora, suor Maristella Bartoli, riunita con le consorelle della Comunità benedettina dell’Adorazione Perpetua del SS. Sacramento, nel Coro, separato da una grata rispetto al resto della chiesa dove siedono i fedeli. Presenti anche diversi sacerdoti, tra cui il parroco di “San Vincenzo de’ Paoli”, nel cui territorio si trova il Monastero, don Edoardo Canetta e don Natale Castelli, parroco della vicina “SS. Redentore”.
La riflessione dell’Arcivescovo
A tutti si rivolge l’Arcivescovo che accende sull’altare un’artistica lampada in ceramica rossa, opera degli ospiti dell’Istituto “Sacra Famiglia” di Cesano Boscone.
«Voglio parlarvi di questa lampada rossa che è bella fuori dentro e fuori. È stato scelto con cura il colore perché fosse vivace ed è stata decorata anche con strisce d’oro», osserva subito il Vescovo Mario che ne consegna di simili anche durante le sue Visite pastorali.
«Una lampada trattata con cura, ma che, poi magari, non ha una funzione particolare. Parlo di questa storia perché, forse, si può paragonarla alla giovinezza. La vita di un ragazzo e di una ragazza può essere, infatti, come questa lampada che, in qualche caso, diventa un soprammobile, una presenza cui ci si abitua, non chiedendosi né perché né da dove venga».
Chiaro il riferimento alla fiamma della lampada stessa che arde vivissima sull’altare e a cui l’Arcivescovo guarda. «Noi adesso l’abbiamo accesa e così essa rivela di poter dare luce, di diffondere allegria: con la sua fiamma vivace, gagliarda, arde e dà gloria a Dio, può indicare la strada, impedendo di inciampare». Insomma, la lampada rossa rivela, così, di avere uno scopo, ma solo quando la si è accesa prendendo il fuoco «da un altrove», perché «per quanto bella non si accende da sola. Così è da intendere la giovinezza, come l’attesa di un fuoco che venga per far ardere tutte le possibilità che i giovani hanno. In questo tempo Pasquale, sappiamo cosa può fare ardere: è il Signore risorto, principio di vita che fa vivere, di fuoco che fa ardere, principio di luce che fa luce. Vorrei che fosse un segno per la città, perché si preghi affinché nessun giovane sia ridotto a essere un soprammobile insignificante».
Il riferimento è alla figura di san Giuseppe delineata dal Papa nel suo Messaggio, «uomo dei sogni che viene visitato dagli angeli di Dio, in modo che sappia subito cosa debba fare».
Ma chi sono gli angeli del Signore? Come si presentano? «Hanno il volto di uomini e donne che in nome di Dio ci parlano e ci aiutano, hanno il volto della Parola di Dio per cui, forse, viene il giorno che quella stessa Parola, ascoltata distrattamente, divenga di colpo un’annunciazione; un improvviso assalto di gioia che apre a strade nuove».
E, magari, possono avere anche il volto di occasioni, momenti e fatti della vita. «Può darsi che anche nella pandemia, costretti a limitare le attività, a tornare presto a casa, ad avere più tempo, abbiamo avuto le condizioni per domandarci chi siamo e dove stiamo andando».
Ma come fidarsi di una parola che chiama, di una proposta che ci raggiunge e che magari spaventa? Come sapere che la voce che viene da Dio non sia un’illusione o frutto di un momento di crisi?
«Giuseppe ha saputo individuarla perché il suo cuore era orientato a Dio. Per riconoscere la voce che viene da Dio è necessario riconoscere che abbiamo un interlocutore, che abitiamo dentro un Mistero che ci inquieta e che, ogni volta, ci salva. Preghiamo per le vocazioni, per la nostra, perché possiamo rispondere con la prontezza di uomo giusto come Giuseppe e perché non vi siano giovani, in questa città, che rimangono spenti».
Le testimonianze
Si prosegue tra canti e preghiera, lettura di stralci del Messaggio del Papa e di quello dei Vescovi italiani per la Giornata. 3 le testimonianze di vocazioni vissute. Inizia padre Piero, missionario del Pime. «La mia scintilla si è accesa la notte di ferragosto del 1999. Ero in India e avevo davanti missionari anziani felici, una suora che lavorava in un lebbrosario, anch’essa felice, e un prete del Pime che ogni giorno prendeva lo scooter, a 80 anni, per andare a visitare la gente nei villaggi. Mi sono chiesto se non poteva essere quella la mia strada e da lì è iniziato il percorso il discernimento. Nel 2008 sono stato ordinato sacerdote in Duomo e nel 2013 sono partito per l’Algeria dove sono rimasto 7 anni». Tanti i segni di quel cammino talvolta non facile, ma l’ultimo “segno” padre Piero lo tira fuori dallo zaino e lo mostra ai fedeli che ascoltano la sua storia in silenzio. È una piccola riproduzione di un cammello, «simbolo della resistenza; anzi meglio, della resilienza, della capacità – dice – di cadere e di rialzarsi. La speranza è certa perché il Signore ci è vicino e la luce che abbiamo acceso e lì a testimoniarlo».
È la volta di don Giacomo, 35 anni, ingegnere aerospaziale, prete novello ordinato il 5 settembre 2021 da monsignor Delpini, vicario parrocchiale per le parrocchie del SS. Redentore e di Santa Francesca Romana. «Sono grato e commosso di poter parlare qui. La vita si ha solo se si dà: è qualcosa che ho scoperto davvero nella mia vita, anche se molto gradualmente e persino con un po’ di rifiuto nell’età adolescenziale. Infatti, ho riscoperto la domanda che mi interrogava nel profondo in un percorso iniziato alle Superiori e poi all’Università dove, con un gruppo di amici legati al Movimento di Cl, capivo che tutto quello che cresceva dentro di me assumeva una forma bella solo se veniva donato. La musica, il disegno e anche le stelle sono diventate una strada per capire che queste mie passioni diventavano più preziose donandole e avendo come compagno di viaggio il Signore. Così è nata l’intuizione della vocazione sacerdotale».
Un’intuizione che per suor Maria Chiara, professa della Comunità del Monastero, si è fatta presente durante una confessione, iniziata un po’ per caso, durante la GMG di Madrid, quando aveva 18 anni. «È stata un’esperienza dell’amore di Dio che mi ha segnata e mi ha fatto sentire parte di una storia di Chiesa. Era una nuova fiamma che si accendeva e che desideravo fosse il lievito della vita quotidiana». Poi, il cammino di ricerca, l’esperienza nel “Gruppo Samuele”, il parroco che la fa avvicinare al Monastero – «anche se avevo sempre pensato che fosse una vita assurda» -; l’entrata dopo pochi mesi nella famiglia delle consorelle benedettine, «con il filo conduttore di vivere sempre per il Signore, ma insieme a qualcun’altro. Un cammino di stabilità, che porta verso tutti, in cui si vive e ci si apre alla vita eterna, passando per le cose di tutti i giorni, rincominciando sempre dal perdono».