La poesia come porta spalancata verso l’inafferrabile. Una nuova raccolta di liriche del sacerdote trevigliese, nata durante la pandemia, che verrà presentata sabato 3 ottobre, alle ore 11, presso il santuario della Madonna delle Lacrime a Treviglio. Il ricavato della vendita del libro sarà devoluto a favore della Caritas.
di Giuseppe
VILLA
Sacerdote e poeta
La presente raccolta di poesie è nata con l’inizio della pandemia e, come un diario ne custodisce la memoria. La Novena della Madonna delle Lacrime a Treviglio fu interrotta domenica 23 febbraio con il decreto del governo che “sospendeva ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico”. La Chiesa rimaneva aperta e si poteva celebrare a porte chiuse, senza accesso dei fedeli. La Santa Messa della ‘Velazione’ del 28 fu celebrata così e anche ‘la Messa del miracolo’ del giorno dopo con la presenza dell’Arcivescovo Mario Delpini che la presiedeva. Le disposizioni governative successive chiedevano di rimanere in casa.
Il 1° marzo, l’Arcivescovo si rivolgeva ai preti e religiosi con queste parole: “Vi invito a essere presenti attraverso i mezzi diocesani e locali, come radio, Tv e siti parrocchiali, nelle case e dove vivono le comunità, dedicando tempo a preparare le prediche più meditate, le preghiere più belle, a offrire consigli e strumenti ai fedeli, perché i cristiani non si lascino abbattere”. Quest’ultimo intervento motivava la mia scelta di iniziare a scrivere qualche testo: i primi sono articoli sul settimanale “Il Popolo Cattolico” con una cronaca di quei giorni, e alcuni suggerimenti.
Gli scritti sono dunque 38 poesie ‒ di cui 3 sonetti, 3 inni e 32 in versi liberi ‒ e preghiere, ma anche articoli pubblicati su “Il Popolo Cattolico” e alcune omelie. La sequenza dei testi segue il calendario di questi sei mesi, anche se all’inizio non sapevo fino a quando e secondo quali fasi dell’evolversi del contagio virale, che ho scoperto poi in seguito. I testi non hanno dunque una successione programmata, come può suggerire la numerazione del calendario. L’evento del contagio ha innescato un processo in cui sono coinvolti tanti aspetti della vita e non solo quello numerico. La vita come un ‘processo’ significa che essa è in corso, ancora adesso, dopo più di sei mesi dall’inizio del contagio. L’evento ci ha colto di sorpresa e ha spaesato un po’ tutti. Abbiamo vissuto uno sconvolgimento di molti aspetti della nostra vita. I numerosi contagiati e i tanti morti hanno dato poi una connotazione drammatica a questo tempo. La vita di tutti, e delle parrocchie stesse, ha avuto un brusco arresto, mettendo così in uno stato di ricerca e con una tensione interiore, diversa da persona a persona: in me è stata la spinta a comporre le poesie. In questo senso le poesie qui raccolte sono, da una parte, il frutto della ricerca, e dall’altra, forme diverse di comunicazione per tenere vive le relazioni, alimentando il pensiero e il dialogo, a fronte degli schematismi, pur necessari, dei protocolli per la difesa sanitaria.
Tutti abbiamo bisogno della medicina e del personale medico, ma si custodisce la propria vita anche con il lavoro, con la qualità degli affetti in una trama di legami. Queste prospettive vanno oltre il Covid-19 e le problematiche sanitarie che ha imposto. Per un futuro diverso occorrono basi culturali nuove e ciò richiede una nuova consapevolezza della nostra storia. In questi mesi ci siamo resi conto delle nostre fragilità e di quanto sia presuntuosa una concezione che voglia dominare il tempo e lo spazio, riconducendo la vita a quanto si può dominare.
Ciascun lettore potrà verificare i sentieri qui percorsi e le diverse metafore ricorrenti, come l’immagine stessa del “camminare”. Nelle moderne società occidentali questa metafora sembra dipendere dalla predisposizione a incorporare quel vero e proprio groviglio di immagini e realtà, sogno e calcolo, esperienza vissuta e costruzione socio-culturale, che caratterizza l’odierna, diffusa domanda di senso e autenticità. Proprio per questo la metafora richiede di essere maneggiata con cura e cautela. Tutto fa pensare che il successo recente della retorica del camminare dipenda anche dalla sua promessa tacita di rimetterci in contatto con questa dimensione dell’esistenza, soprattutto in questo tempo della pandemia, quando cioè è caduta la condizione privilegiata di sé, schermati dall’efficienza e dal senso di autosufficienza.
La cura richiesta è un compito oggi indispensabile, ma perché lo sia, occorre anche cautela. Scrive l’Arcivescovo nella Lettera Pastorale: siamo in un tempo “dell’ottusità che rende stolti, della sventatezza degli sciocchi” (p. 18). Occorre allora la disponibilità ad ascoltare: “L’attenzione ad ascoltare le domande chiede tempo, perché lo Spirito (p. 20) operi per consentire di intravedere la luce che si affaccia nelle tenebre e il sentiero che si delinea nel groviglio delle chiacchiere e della confusione”. La metafora del “camminare” qui s’interfaccia non con il concetto razionale astratto, ma con una sapienza che sappia ascoltare e che sia vigilante, che sappia cercare e interrogare e che a farlo sia un popolo, “insomma un popolo in cammino” (p. 29). La metafora del ‘camminare’ segnala un punto d’incontro, la possibilità che il popolo di Dio in cammino possa incrociare la cultura diffusa e viceversa.
Come metafora, dunque, il “camminare” incorpora altre metafore come la ‘la soglia’, ‘il varco’, che nel verso intero, “Un varco d’aria al respiro”, richiama “Curriculum vitae” di Clemente Rebora e qui fa da titolo al mio diario poetico. Il verso stesso è una metafora del contagio virale che nei casi più gravi toglieva il respiro. ‘Il camminare’ incorpora anche le metafore della ‘notte’ e ‘alba’, immagini che spaziano su un ampio arco di significati; incorpora infine un’altra metafora ricorrente, ‘il limite’, immagine della fragilità e della vulnerabilità umana.
Insomma la metafora del ‘camminare’ funziona come un ‘capofilo’, l’inizio di un filo che, inanellandosi tra altri fili, tesse una trama, una rete, un tessuto. In tale movimento, con quel ‘tessuto’, mi sono fatto un ‘abito’. E questo non è un abito eccentrico: «l’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità (cfr Gen 3,21), ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di “rivestirsi” di storie per custodire la propria vita» (Papa Francesco, “dal Messaggio del santo Padre Francesco per la 54ma giornata mondiale delle comunicazioni sociali).
La poesia si avvale di metafore, grazie alle quali la poesia va oltre ciò che dice, rendendo prossimo ciò che è lontano, senza però poterlo afferrare. Una metafora è appropriata in una poesia quando è viva, quando cioè innesca un processo riconoscibile nel testo. Proprio per questo, le parole poetiche sono come porte che si spalancano, tendendo verso l’inafferrabile. Lo scarto tra la parola e l’inafferrabile impedisce l’appiattimento sul reale e l’evasione nell’immaginato, generando una tensione che si può percepire nei versi. Tale scarto è indispensabile alla poesia, senza il quale il testo sarebbe solo prosa, ragionamento.
La poesia si affaccia sull’inafferrabile, ma «Quel più che le appartiene e del quale vive, essa non se lo può dare da sé. Essa si affaccia sull’infinito, ma non può darci questo infinito, né può portare o nascondere in sé colui che è l’Infinito. […] La parola poetica invoca la parola di Dio e il poeta fa appello al sacerdote. Essi possono incontrarsi perché l’uno formula la domanda ‒ poetica ‒ e l’altro dà la risposta ‒ divina» (K. Rahner, Sacerdote e poeta, San Paolo, 2014, pp. 108-109). Quell’inafferrabile, la fede lo crede possibile, non come qualcosa che scende dall’alto, ma che sale come un corpo umano trasfigurato, inafferrabile alla Maddalena (Gv 20, 17), tangibile però ai discepoli una volta creatasi la comunione fraterna attorno al Risorto.
Quando annuncio questa possibilità attraverso la forma linguistica della poesia, vuol dire che prima ho ‘ritagliato’ le parti e li ho cuciti come un ‘vestito’. Non per me, ma per quello che immagino possa essere per tutti e per la “casa comune”. Sono solo parole, un annuncio di un uomo cristiano, che è anche prete e qualche volta desidera scriverle con densità simbolica.