Prosegue fino al prossimo 4 ottobre la bella mostra con le opere provenienti dai Musei Vaticani dei maestri francesi che, tra Ottocento e Novecento, hanno interpretato i temi spirituali e religiosi nella contemporaneità.
di Luca
FRIGERIO
«Ma perché vuoi fare una chiesa?». Picasso era allibito. Di più: indispettito. Davvero non riusciva a capire cosa avesse spinto il suo amico e collega Matisse ad occuparsi della modesta cappella di una comunità di suore in Provenza. Noi artisti del ventesimo secolo, gli diceva, dobbiamo immergerci nel sociale, dobbiamo ricreare i luoghi abitati dalla gente (i cinema, i mercati, le stazioni…), dobbiamo affrontare i grandi temi del nostro tempo! «Appunto», gli rispondeva Matisse con un sorriso che poteva apparire sornione, ma che era soltanto ispirato: «È proprio quello che sto facendo a Vence».
Era il 1950. Il confronto personale tra i due protagonisti delle avanguardie riproponeva, in realtà, una questione che da anni stava attraversando tutto il mondo dell’arte, ovvero quale spazio potesse ancora avere il sacro nella società moderna e come la sensibilità religiosa potesse esprimersi nelle forme e nei modi della contemporaneità. Tra una Chiesa che, dopo essere stata per secoli la principale committente degli artisti, ora, frastornata e sospettosa, preferiva ripiegarsi per lo più su riproduzioni consolatorie ed oleografiche; e gli artisti stessi che, per rivendicare la propria libertà d’azione e di pensiero, spesso facevano della mera provocazione la loro bandiera e il loro manifesto.
Un dibattito che emerge chiaramente dalla bella mostra in corso al Museo diocesano “Carlo Maria Martini” a Milano, che presenta una ventina di opere provenienti dalla collezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani, legate al tema della Passione e tutte accomunate dalla loro origine francese. Proprio oltralpe, infatti, tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, la «querelle de l’art sacré» si fece particolarmente vivace e fruttuosa, grazie anche alle riflessioni e alle iniziative promosse da figure come Maritain, Couturier e poi Guitton. Anche Montini, come è noto, si formò su queste esperienze, diventando egli stesso, prima come arcivescovo di Milano, poi soprattutto come papa, protagonista di un ritrovato e rinnovato dialogo tra la Chiesa e gli artisti.
Di Henri Matisse nelle sale del Diocesano sono esposte alcune litografie a soggetto mariano (che davvero si possono definire “graziose”, ma nel senso di “piene di grazia”) e la fusione di prova della filiforme croce di bronzo posta sull’altare della Cappella del Rosario di Vence, appunto: un’impresa che impegnerà gli ultimi anni del maestro francese, e che lui stesso considerava come una sorta di testamento artistico e spirituale. Opere che erano state donate a Paolo VI dalle committenti, cioè le suore domenicane, e che il santo pontefice aveva poi inserito nella raccolta d’arte sacra contemporanea da lui promossa in Vaticano, sul modello di quella che aveva potuto ammirare a Villa Clerici a Milano.
Alle origini di questo percorso si pone invece l’intaglio ligneo di Paul Gauguin, raffigurante una tipica processione della tradizione bretone, con inquietanti devoti che stringono una croce, mentre sullo sfondo si staglia il Crocifisso. Il pannello, realizzato attorno al 1890, quando cioè l’artista crea un capolavoro come il celebre Cristo giallo, reca la scritta «Mat 5-8», che sembrerebbe rimandare al relativo versetto del vangelo di Matteo («Beati i puri di cuore»), ma che secondo una nuova interpretazione potrebbe alludere al discorso della montagna, e quindi alle beatitudini enunciate da Gesù, nella sua interezza.
Sempre di fine Ottocento è la Mano di Dio, virtuosistica scultura bronzea di Auguste Rodin che riprende nel gesto suggestioni michelangiolesche insieme a citazioni medievali, evocando la carezza misericordiosa del Padre sul volto di noi figli smarriti e ritrovati.
Quella stessa misericordia che si irradia dalle braccia spalancate del Cristo appeso alla Croce, nell’emozionante gouache che Marc Chagall dipinge proprio mentre Matisse è impegnato nella cappella di Vence. Dove l’Uomo della Passione è un autentico figlio di Israele, con il tallit (il manto di preghiera bianco a strisce nere) e quel colore giallo che marchiava gli ebrei, come a ricordarne l’Olocausto insieme al sacrificio sul Golgota. E dove il pittore, Chagall stesso, innalza verso il Redentore non solo il suo sguardo, ma anche il suo pennello, come a rivendicare con fierezza la propria missione, riconoscendo i suoi limiti e la sua fragilità.
La mostra Gauguin, Matisse, Chagall. La Passione nell’arte francese dai Musei Vaticani, a cura di Micol Forti e Nadia Righi, è aperta fino al prossimo 4 ottobre al Museo Diocesano a Milano (piazza Sant’Eustorgio, 3). Informazioni su www.chiostridisanteustorgio.it