Premiazione e mostra per i giovani artisti che hanno partecipato all'ultima edizione del prestigioso premio milanese. Il senso dell'iniziativa e una guida alle opere esposte nell'introduzione del direttore della Galleria San Fedele.
di Andrea DALL'ASTA SJ
Direttore Galleria San Fedele - Milano
In un mondo che rischia sempre più di vivere senza riferimenti dal punto di vista politico, sociale e religioso, proporre a giovani artisti un tema sull’approdo, sul significato di una meta verso la quale orientare il proprio sguardo, è una vera e propria sfida. Infatti, si è trattato per loro di riflettere sul senso più profondo della vita, di domandarsi quale direzione prendere per comunicare un’esperienza ricca di senso. Parlare di approdo significa, infatti, cercare di immaginarsi il termine di un viaggio, capire dove il percorso compiuto ti ha portato. In questo senso, il Premio San Fedele 2012/2103, concludendo il ciclo triennale “E quindi uscimmo a riveder le stelle” è stato un’occasione per offrire un momento di riflessione, per interrogarsi su alcune domande fondamentali. La mostra è a cura di Andrea Dall’Asta SJ, e di Daniele Astrologo, Ilaria Bignotti, Chiara Canali, Matteo Galbiati, Chiara Gatti, Kevin Mc Manus, Massimo Marchetti e Michele Tavola.
Con l’installazione Trentatré 1942 – 1975, Serena Zanardi riflette sul tema della memoria. Riprendendo le vecchie fototessere dimenticate di una donna sconosciuta nell’arco di trent’anni realizza in terracotta dipinta i suoi ritratti. È come se in questo modo le fotografie riprendessero vita. La donna si presenta davanti a noi, col suo sguardo, il suo sorriso. Le foto si trasformano nelle mani della giovane autrice in piccole statue che rivelano il trascorrere del tempo di una persona, attraverso il ritratto. L’approdo diventa così il sottrarre all’oblio quanto era stato abbandonato e forse perduto per sempre. E la vita di quella donna rinasce, entrando nella nostra memoria.
Sempre sull’idea della memoria si ispira il lavoro di Isabella Mara. Con Citazioni, la giovane autrice parte dall’idea secondo la quale ogni libro – letto, vissuto e sottolineato – dischiude un mondo, in cui è possibile entrare per soggiornarvi e dimorarvi. L’approdo consiste in questo abitare nella memoria, perché questa diventi un’ancora, un luogo sicuro. Nella sua installazione, i libri si trasformano in una città, in cui tessere trame di vita, una molteplicità di relazioni e di connessioni. Si tratta forse della critica a un mondo in cui tutto scorre così rapidamente che rischiamo di perdere la nostra identità, nell’assenza di una “memoria” individuale e collettiva?
Con Senza Titolo, Mario Scudeletti presenta una sedia e un banco, il cui piano opaco ha una lunghezza inusuale che si sviluppa verso l’alto. Quale è la meta? La condizione umana – suggerisce il giovane autore – non può fare a meno di sollevare il proprio sguardo verso l’alto. Certo, il banco è simbolo di quell’apprendere umano che non si compie mai una volta per tutte. È un compito infinito. Tuttavia, il banco non costituisce l’approdo, ma indica semplicemente la direzione verso la quale contemplare la meta della vita, per potersene meravigliare: le stelle. Con Brancusi alla radio, Alessandro Mason ci trasporta in uno scenario in cui il mare diventa protagonista. Anche se come memoria. Il giovane autore concepisce una “macchina”, costituita da uno stelo verticale in metallo con due “pale”. Sono elementi orizzontali in azione collocati nel mare e sono composti da un sistema di lame costantemente sollecitate da acqua e aria. Sono dunque continuamente oscillanti, ruotanti, vibranti. L’approdo è il raggiungere un equilibrio perché poi la macchina, portata in uno spazio espositivo, riveli sulla propria “pelle” le tracce del tempo. Una storia è così raccontata attraverso segni, ossidazioni, incrostazioni saline. E come un reperto, suggerisce quei paesaggi “vissuti” nella mente di chi la osserva. Molto diversa è l’intuizione di Francesco Arecco che presenta una scultura in legno dal titolo ‘Omphalos (ombelico). Su suggestione degli antichi ‘omphaloi conservati a Delfi – uno era di epoca classica, l’altro del periodo ellenistico – attraverso una serie di lame di legno di pioppo e abete rosso di risonanza, costruisce un ombelico, punto di arrivo e al tempo stesso di partenza, in quanto segna l’inizio della vita autonoma del bambino. Al tempo stesso, Arecco allude al bocciolo di un fiore, che sta per aprirsi. Nella sua forma pressoché sferica simboleggia un modello dell’universo. E la sua forma ricorda una cassa armonica da cui risuona il fruscio dei movimenti del cosmo. Con Lampedusa o dell’esteso deserto, Massimiliano Gatti ci riporta agli sbarchi di immigrati a Lampedusa. Tuttavia, le sue foto non ritraggono “persone”, quanto piuttosto i loro oggetti personali che, persi durante l’approdo, il mare ha raccolto e restituito. Una teiera, un bicchiere da te, un pezzo di stoffa… Sono piccoli oggetti che tuttavia sprigionano un alto valore simbolico, in quanto ridanno dignità ai loro possessori. Immersi in uno sfondo bianco, quasi che il giovane artista abbia cercato di mettersi il più possibile da parte, pongono interrogativi sulle persone che non hanno potuto riprenderli con sé. Dove sono? Quale approdo avranno raggiunto? Saranno sopravvissuti? Ben diverso è il lavoro di Gaspare che, con Untitled (Library) 2013, presenta 100 fotografie istantanee che ritraggono una “distesa di cenere” ottenuta dopo aver bruciato 100 libri della sua biblioteca. Se per il giovane autore distruggere è ricreare, l’opera sembra non condurci ad alcun approdo, quanto suggerirci un continuo ripetersi delle vicende del mondo, in una ciclicità che non conosce sosta. Molto interessante è poi il lavoro di Maurizio Cogliandro che presenta un libro d’artista, Tree. Attraverso una serie di 14 fotografie di un bosco, siamo accompagnati in un viaggio verso una luce che tutto dissolve, in un bagliore metafisico. Ironica e divertente è la performance L’Approdo di un giovane di origine africana, Afran che, continuando a dipingere e ridipingere sulla stessa tela soggetti sempre nuovi, evoca un approdo intriso di sensazioni di inutilità, di vuoto, proprio quando si è giunti alla meta. Se Fabio Romano con Fallout propone un’installazione costituita dal depositarsi delle polveri sulle strutture di oggetti trovati, componendo delle micro città distrutte da eventi naturali o dalla mano dell’uomo – l’approdo è qui forse un annientamento totale della vita? – il gruppo Aurora Meccanica, con Esigue dipendenze, indaga sul rapporto tra immagine e pubblico. Toccando l’acqua contenuta in una vaschetta lo spettatore crea una rielaborazione digitale proiettata sul muro. L’approdo diventa qui la possibilità di creare infinite immagini in relazione tra loro. Infine, Claudia Caldara per l’installazione Alla luce del giorno fotografa una villa abbandonata nei campi pugliesi e la proietta nel cuore della notte in luoghi di passaggio frequentati prima che sorga il sole, come stazioni ferroviarie. L’immagine scompare con la luce del giorno. Si perde nella luce. È forse anche questo un modo per indicare un approdo?