A 20 anni dalla morte, Anselmo Palini traccia una ricca biografia del prete bresciano che, missionario fidei donum in Uruguay, fu incarcerato e torturato con la sola accusa di aver annunciato il Vangelo ed essersi speso per la gente di quel Paese sudamericano. Sullo sfondo, il Concilio Vaticano II e i suoi insegnamenti.
di Silvio MENGOTTO
È una testimonianza ancora poco conosciuta, quella di don Pierluigi Murgioni, sacerdote bresciano fidei donum, missionario in Uruguay rinchiuso e torturato in carcere con la «sola colpa di avere proposto con la parola e con l’esempio il messaggio evangelico di pace e di giustizia». Negli anni ’70 nei paesi latinoamericani retti da una dittatura militare, predicare il Vangelo significava essere considerato un pericoloso sovversivo.
In questo libro (Dalla mia cella posso vedere il mare, Ave Edizioni) Anselmo Palini ripercorre la storia di don Pierluigi Murgioni che nel respiro del Concilio Vaticano II matura la scelta sacerdotale con lo sguardo missionario sul mondo. Dopo la formazione nel seminario per l’America latina di Verona, don Pierluigi Murgioni trascorre un primo garzonato pastorale nella Spagna ancora oppressa dalla dittatura franchista. Perfeziona la lingua spagnola e frequenta una pastorale operaia. Il 1968 è l’anno delle imponenti manifestazioni studentesche in tutto il mondo. A Madrid viene coinvolto in uno scontro di piazza tra studenti e le forze dell’ordine. Don Pierluigi «ha modo di conoscere direttamente i metodi che una dittatura utilizza per reprimere ogni forma di opposizione e di protesta. Di lì a poco, in Uruguay, ne avrebbe avuti altri e più efferati esempi». Nell’agosto del 1968 il sacerdote parte per l’Uruguay.
Fermenti nella Chiesa latinoamericana
Tra dittature ed economie ultra liberiste nel continente latinoamericano nasce una pluralità di teologie della liberazione. Per Paolo VI la liberazione deve essere integrale «non può essere una dottrina o un sistema di tipo ideologico, bensì una lettura delle drammatiche condizioni di vita del popolo, fatta sulla base del Vangelo». I vescovi latinoamericani nella Conferenza di Medellin approvano sedici documenti su vari aspetti della Chiesa. Sulla pace e la giustizia sociale si afferma la scelta preferenziale per i poveri. Nel documento sulla povertà della Chiesa «l’episcopato latinoamericano non può restare indifferente di fronte alle tremende ingiustizie sociali esistenti in America latina, che mantengono la maggioranza dei nostri popoli in una dolorosa povertà, la quale in molti casi arriva ad essere miseria disumana».
Nascono e si diffondono le prime Comunità di base che maturano «una nuova idea di Chiesa, percepita non più solo come “corpo mistico di Cristo”, ma anche come “popolo di Dio”. Da una Chiesa intesa in senso piramidale si passa a una Chiesa vista come comunità di persone». L’America latina in campo economico passa dall’influenza inglese a quella statunitense che per evitare il contagio cubanano e sovietico promuove un programma di finanziamenti per i paesi Latino americani di 20 miliardi di dollari per riforme sociali. Di fatto i principali paesi utilizzano i soldi per modernizzare gli eserciti e le forze di sicurezza antiguerriglia.
Tra il 1961 e il 1965 in America latina si susseguono sette golpe militari, con il sostegno statunitense. Nel 1968 il presidente uruguayano Pacheco proclama lo Stato di emergenza nazionale e annulla le garanzie costituzionali. In contemporanea appaiono i primi gruppi della guerriglia rivoluzionaria con il nome di Tupamaros, che pensano di risolvere i problemi con la lotta armata. In questo clima nella diocesi di Melo arriva don Pierluigi insieme a don Savona Mori. Don Pierluigi si mantiene facendo l’operaio e il taxista. «Il denominatore comune è uno solo, cioè la situazione spaventosa della gente più povera di fronte alla ostentazione irrazionale di ricchezza da parte dei soliti furbi. Per ora – scrive in una lettera – tutta la mia attenzione sta nell’entrare in relazione con la gente del barrio».
Don Pierluigi si accorge subito della miseria diffusa. «Non c’è neppure – scrive il sacerdote – la libertà di vivere: recentemente qui a Melo sono morti due bambini di fame. Sembra impossibile che una terra così fertile, così grande (chilometri e chilometri di praterie vergini) sia così poco e male sfruttata». In questa lettura della realtà don Pierluigi viene aiutato dalle opposizioni in Parlamento e dallo svilupparsi delle lotte sindacali. In particolare dai lavoratori delle canne da zucchero a Treinta y tres. «Erano i lavoratori – ricorda don Pierluigi – più sfruttati del Paese, gente che era costretta a lavorare 14-18 ore al giorno, con la schiena piegata fino a terra per ore, per tagliare la canna vicino al suolo. Erano operai sottopagati e con una sopravvivenza stimata mediamente intorno ai 35 anni di vita».
Alla violenta repressione dell’esercito contro la popolazione la risposta della sinistra rivoluzionaria è la lotta armata ossia i Tupamaros che rispondo colpo su colpo.
La dittatura dei militari scatena una feroce repressione verso le forze di opposizione, soprattutto contro la guerriglia dei Tupamaors che, precisa don Pierluigi, «sono un Movimento di liberazione nazionale (Mln, Movimiento de liberacion nacional): liberazione dal neocolonialismo politico economico cui tutta l’America latina ( e perciò anche l’Uruguay) paga il suo tributo di fame, miseria, corruzione, ingiustizia, ecc.».
Dalla prigione all’espulsione
L’applicazione della tortura in diverse forme diventa un fatto normale nella polizia.
«In Uruguay, la tortura è utilizzata come un sistema abituale per gli interrogatori: chiunque può essere vittima, e non solo i sospettati o i responsabili di atti di opposizione. In questo modo si diffonde il panico della tortura tra tutti, come un gas paralizzante che invade ogni casa e l’anima di ogni cittadino». Questo esporsi con gli infelici di fatto diventa la croce di don Pierluigi. «Credo che la nostra Croce – scrive il sacerdote -, sicurezza di resurrezione, sia proprio la condizione di chi si espone forse a sbagliare, ma da una sola parte: «Ai poveri, agli infelici, ai perseguitati per sete di giustizia e di liberazione è promesso il Regno di Dio».
Per la sete di giustizia don Pierluigi viene accusato di essere un sovversivo comunista. In una lettera a monsignor Fernando Pavanello, il sacerdote denuncia il fatto che i benpensanti considerano sovversivi e comunisti coloro che, soprattutto preti, si interrogano sulla realtà della povertà e dell’ingiustizia sociale. Si conferma ciò che il vescovo brasiliano Helder Camara aveva osservato «Fin quando davo la mangiare ai poveri, dicevano che ero un santo, da quando mi chiedo perché ci sono i poveri, mi danno del comunista». Alla presidenza del Paese succede Juan Mario Bordaberry «un cattolico integralista nemico del Concilio Vaticano II, sostenuto dalle forze militari e dall’oligarchia economica. Bordaberry gode anche del sostegno del nunzio apostolico in Uruguay». Il nuovo presidente è deciso a bloccare con brutalità l’opposizione. Nel paese si diffonde il terrore come sistema e la tortura applicata sistematicamente. Tra il 1972 e il 1973 vengono imprigionati e torturati una persona ogni cinquanta. La delazione diventa un diritto che educa ogni cittadino e le spie nascono come funghi ovunque. Nascono gli squadroni della morte «composti da ufficiali di polizia con ampi poteri nella lotta contro i Tupamaros. Queste forze, addestrate dallo statunitense Office of public safety (Ops), danno il via a eliminazioni mirate e ad arresti di massa, anche nei confronti di semplici sospettati di vicinanza ai gruppi rivoluzionari».
Al ritorno da una breve vacanza a Brescia don Pierluigi viene arrestato con l’accusa di aver favorito la fuga di un guerrigliero. «Avevo aiutato – dice don Pierluigi – un giovane a fuggire. Si trattava di un tupamaro, fuggito dal carcere e che nel corso di una sparatoria era stato ferito a una gamba». La polizia segreta accumula informazioni non fatti e usa la tortura con l’obiettivo di distruggere la volontà di opposizione. Anche don Pierluigi viene sottoposto alle abominevoli torture. «Gli aguzzini sono molto bravi a non lasciare sul fisico dei detenuti tracce evidenti dei loro interventi. E, col trascorrere del tempo, si specializzano anche nella tortura psicologica. Scopo dei militari è fare in modo che la paura e la pressione psicologica contagino anche i familiari dei detenuti».
Monsignor Luigi Morstabilini, vescovo di Brescia, con una lettera ai fedeli annuncia preoccupato l’arresto di don Pierluigi. Nella parrocchia uruguayana di Melo si allarga un moto di simpatia e solidarietà attorno al sacerdote arrestato mentre i vescovi uruguayani denunciano pubblicamente l’uso disumano della tortura.
«In accordo con il nostro ministero e per il bene di tutti gli uomini, noi non possiamo tacere che la morte, le sevizie fisiche, la tortura, la prigione ingiusta costituiscono una negazione radicale della dignità dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio». Don Pierluigi trascorre cinque anni recluso in diversi penitenziari. In questa terribile situazione riceve l’aiuto e la solidarietà di molti detenuti e da altri sacerdoti reclusi. Nel dicembre 1972 scrivere una lettera ai genitori: «Dalla mia cella posso vedere il mare; stasera c’è una luna piena stupenda, bassa sul mare, rossa, con fiocchi di nuvole davanti: tutto uno spettacolo. Sono piccole cose che ti aiutano a “essere fuori”». Dal 1972 sino al 1977 con il numero 756 don Pierluigi rimane nel carcere Colonia Libertad dove riceve, e dona, tanta solidarietà tra i detenuti e dall’Italia. A volte gli è concesso di celebrare la Messa. In questa situazione don Pierluigi sperimenta la positività della fede. «Ho visto gente molto preparata che è crollata di schiatto, preti compresi; gente che io ammiravo tantissimo, che poi si è suicidata in carcere, gente che ammiravo per la sua solidità umana e capacità. E’ chiaro che l’avere dentro delle idee serve. Perché quando non c’è più nessuno spiraglio, nessuna speranza di tipo esterno, quello che noi chiamavamo la fede, per noi cristiani la fede soprannaturale, ma per un non cristiano la fede nell’uomo, nella storia ecc., quello era una luce sul serio». In cella diventa l’amico di tutti e riceve spesso visite da sacerdoti uruguayani. Riceve inaspettatamente la visita del vescovo di Brescia che attraversa il continente Latino americano per incontrare e riabbracciare tutti i sacerdoti fidei donum bresciani. Don Pierluigi acquista una nuova visione della vita. In una lettera dice «Credo che il cristiano non abbia il diritto di perdere tempo in questo. Deve tutto il suo tempo al fratello che lo aspetta al margine della strada, al fratello ateo, al fratello affamato, al fratello che soffre, a tutti i fratelli che cercano in noi, uomini cristiani, compagni effettivi di marcia verso il futuro. Questo, tutto questo, mi fa star bene, mi rende ottimista». Nell’ottobre ’77 don Pierluigi viene liberato ed espulso dall’Uruguay.
«I poveri veri sono diversi da quelli pensati»
Don Pierluigi ritorna a Brescia con la convinzione che «i poveri veri sono diversi da quelli pensati». Dal 1978 al 1992 è sacerdote in una parrocchia. Nel Salvador monsignor Oscar Romero è stato maestro e testimone: con la parola ha guidato e orientato il proprio popolo. Il suo martirio testimonia il suo schierarsi al fianco dei poveri e oppressi parlando e agendo senza odio. Il vescovo Romero era il faro di riferimento di don Pierluigi. Dopo la sua tragica morte, per opera di squadroni della morte in Salvador, viene pubblicato in spagnolo il diario di monsignor Oscar Romero. A don Pierluigi viene chiesto di curare la traduzione in italiano. Don Pierluigi si ammala di cancro allo stomaco e dopo una lunga malattia muore il 2 novembre 1993. «Un giorno Pierluigi – ricorda la sorella Carla – sedeva sulla spiaggia e guardava il mare. A un certo punto mi disse: «Vedi, Carla, come è bello l’azzurro del mare sardo? Non credi che il paradiso debba essere anche più bello?».