Un ricordo dell'artista milanese, che ha lavorato in decine di chiese in tutta la diocesi ambrosiana, a 50 anni dalla morte. Simbolo di quegli "oscuri artigiani" di talento che hanno consacrato la loro vita e la loro carriera al servizio della Chiesa, in nome della fede. Una mostra a Paderno, da sabato 9 marzo.

di Luca FRIGERIO

Arturo Galli

«I dimenticati pittori del sacro». Così un acuto storico dell’arte come Giorgio Mascherpa già trent’anni fa aveva definito quel folto e variegato gruppo di artisti italiani che nella prima metà del ventesimo secolo si era dedicato prevalentemente a tematiche religiose, dentro e fuori le chiese del nostro Paese, e che anche solo per questo, al di là dei meriti personali, per modestia propria o per snobbismo altrui, era stato confinato in una sorta di impenetrabile cono d’ombra. Dimenticati, sì. Emarginati, perfino, dal gran mondo dell’arte, come artigiani di seconda classe, come decoratori di basso livello…

La storia di Arturo Galli, da questo punto di vita, pare emblematica. E ricordarla oggi, a cinquant’anni dalla morte, così come si apprestano a fare alcune parrocchie ambrosiane, pare come una sorta di tardivo ma doveroso omaggio al genio e alla dedizione non solo di questo infaticabile e sensibile pittore milanese, ma anche di tutti quegli artisti sbrigativamente considerati “minori”, ma che, come lui, hanno generosamente consacrato la loro carriera, e la loro stessa vita, a un’arte che fosse davvero al servizio della fede e della Chiesa. Con onestà intellettuale e bravura tecnica, con umana passione e spirituale devozione.

Ancora oggi oltre cinquanta sacri edifici in tutta la diocesi portano il segno dell’arte del Galli, dal cuore di Milano al varesotto, dal lecchese alla cintura metropolitana: chi interi e vasti cicli di affreschi, chi vetrate multicolori, chi ancora pale d’altare o semplici quadri con figure di santi, quasi una sorta di moderni ex voto. Eppure pochi, probabilmente, ricordano il nome del loro autore, e ancor meno ne conoscono la figura e il suo intenso operato. Tacciono, infatti, per lo più, i libri d’arte. E quasi nulla si trova anche cercando nel vasto mare di internet… Su di lui una specie di oblio, una colpevole dimenticanza.

Arturo Galli era nato a Milano, nell’ultimo scorcio del diciannovesimo secolo. I primi rudimenti della pittura li ebbe in famiglia, per poi frequentare l’allora prestigiosa Scuola d’arte del Castello Sforzesco e i corsi dell’Accademia di Brera. Era bravo, il giovane Arturo. Un talento naturale per il disegno dal vero, per il ritratto, per la figura. Tanto da conseguire rapidamente l’abilitazione all’insegnamento. E tentare, a neppure vent’anni, la dura competizione dei concorsi e dei premi. Ma le sue opere, pur assai lodate (come leggiamo nelle cronache dell’epoca), non ottennero i riconoscimenti sperati, provocando forse in lui quella delusione e quell’amarezza che lo portarono ben presto ad abbandonare il pubblico dei saloni e delle mostre, per concentrarsi su una pittura più intima e meditata.

Di carattere schivo e riservato, animato da una fede sincera, Galli dovette intuire allora quale fosse la sua vera strada al servizio dell’arte sacra, stimolato e confortato anche dal sostegno di alcune significative personalità religiose come, ad esempio, monsignor Buttafava, all’epoca canonico del Duomo di Milano.

La prima commissione di rilievo l’ebbe nel 1926, per la parrocchiale di Paderno Dugnano, oggi purtroppo distrutta. Con quel grandioso lavoro, Arturo Galli dimostrò una tale padronanza dell’antica tecnica dell’affresco e una tale abilità interpretativa e compositiva da assicurarsi l’ammirazione di molti in campo ecclesiastico, e non solo, tanto da iniziare, dopo di allora, un’attività pluridecennale a dir poco frenetica, con richieste da ogni parte in terra di Lombardia.

Proprio le continue richieste, del resto, che a volte andarono accavallandosi in diversi cantieri aperti contemporaneamente, possono spiegare talora una pittura un po’ manierata e ripetitiva. Pittura, tuttavia, che là dove è riuscita a dare il meglio di sé si dimostra ariosa e solenne, michelangiolesca nell’ispirazione e neorinascimentale nell’impostazione, quasi nella ripresa di quelle stesse indicazioni accademiche suggerite agli inizi del Seicento dal cardinale Federico Borromeo per un’arte veramente pia. E che gli valsero il plauso dello stesso cardinal Schuster.

Che poi quella di Arturo Galli fosse una scelta ragionata e non una carenza di aggiornamento culturale, lo rivelano i molti bozzetti e schizzi del maestro giunti fino a noi, dove il segno vivace e il tocco brioso dimostrano la consapevolezza di appartenere al proprio tempo e la conoscenza della modernità. Che Galli non volle ripudiare, ma in qualche modo trasfigurare nelle sue opere in una ricerca di eternità.

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