Durante il secondo conflitto mondiale, sacerdoti, funzionari e anonimi cittadini si impegnarono nella difesa del nostro patrimonio culturale, prima salvandolo dai bombardamenti degli Alleati, poi dalle razzie naziste, collaborando anche con i militari americani e inglesi, protagonisti del film di George Clooney.
di Luca FRIGERIO
Il film Monuments Men, in questi giorni nelle sale italiane, inizia con una scena quasi surreale, nella sua drammaticità, dove il Cenacolo di Leonardo appare circondato da macerie e rovine fumanti. È invece la rappresentazione cinematografica di quanto avvenne realmente, nella notte fra il 7 e l’8 agosto 1943, quando una tempesta di fuoco si abbattè su Milano e le bombe delle forze alleate causarono centinaia di vittime e la distruzione di moltissimi edifici. Compresi gli ambienti del convento di Santa Maria delle Grazie, dove la parete dell’Ultima Cena vinciana rimase in piedi per un vero miracolo…
Fu allora che americani e inglesi si convinsero che la guerra, nella sua atrocità, doveva almeno cercare di preservare le più grandi conquiste del genio umano, difendendo quei capolavori artistici che erano patrimonio non solo dei Paesi belligeranti, ma dell’umanità intera.
Nacque così un apposito reparto militare, formato da studiosi ed esperti d’arte, il cui scopo, inizialmente, era quello di tutelare gli obbiettivi di rilevanza culturale sulla linea del fronte. Mentre negli ultimi mesi del conflitto, e soprattutto a pace raggiunta, il compito dei Monuments Men, come vennero familiarmente chiamati, fu soprattutto quello di recuperare le opere d’arte razziate dai nazisti. Come racconta, appunto, la pellicola diretta e prodotta da George Clooney.
Ma ancor prima dell’intervento degli ufficiali alleati, in Italia una schiera per lo più “anonima” di funzionari e di sacerdoti riuscì a mettere in salvo i beni monumentali loro affidati, taluni dimostrando una rara lungimiranza, altri prodigandosi con assoluta generosità, in un eroismo “quotidiano” in gran parte rimasto sconosciuto.
A Milano il Duomo stesso, fin dall’entrata in guerra, divenne deposito per molte opere d’arte provenienti non solo dalle chiese e dagli enti ambrosiani, ma anche da diverse raccolte e collezioni cittadine. Ma quando ci si rese conto che neppure la cattedrale poteva essere considerata un rifugio sicuro, i beni culturali ecclesiali furono allora ricoverati in altre sedi più decentrate, come, ad esempio, l’abbazia bergamasca di Pontida, il seminario di Arona (all’ombra del San Carlone), o ancora il convento di Monte del Re, nei pressi di Imola.
Perfino il Vaticano si fece “arca” dei capolavori italiani, anche di quelli milanesi. La Biblioteca Apostolica ospitò, fra le altre, decine di casse di preziosi documenti diocesani, e una selezione delle opere più importanti della Pinacoteca di Brera. All’inizio del 1943, inoltre, quando ormai era evidente che la guerra non avrebbe risparmiato né i luoghi civili né quelli sacri, il cardinal Schuster si assunse la responsabilità di far trasferire nella sede pontificia uno dei tesori più preziosi di Milano, l’altare d’oro della basilica di Sant’Ambrogio, che per la sua importanza l’arcivescovo considerava alla stregua di una santa reliquia.
Dopo l’Armistizio, e la conseguente occupazione tedesca, il problema dei direttori dei musei dell’Italia settentrionale fu anche quello di “nascondere” le opere sottraendole alle requisizioni delle SS, che in alcuni casi si resero colpevoli di vere e proprie ruberie per compiacere i desideri collezionistici del maresciallo Göring e dello stesso Hitler.
L’allora sovrintendente di Brera, Guglielmo Pacchioni, riuscì ad esempio a intercettare proprio a Milano un convoglio ferroviario che trasportava l’intero patrimonio del Museo di Palazzo Venezia a Roma, rivendicato da Mussolini come proprietà personale. Con un abile e rischioso stratagemma, il dirigente riuscì a convincere la scorta tedesca che quelle 39 casse dovevano essere invece depositate in un magazzino della Banca d’Italia, occultandole sino alla fine della guerra.
Giovane collaboratore di Pacchioni era in quegli anni Gian Alberto Dell’Acqua, grande figura di storico dell’arte, indimenticato docente alla Cattolica, scomparso dieci anni fa, nel 2004. Fu proprio merito suo se tante opere milanesi, ma anche della Pinacoteca nazionale di Bologna, trovarono riparo in luoghi sicuri sul Lago Maggiore: Dell’Acqua, infatti, come un vero “agente segreto” dell’arte, riuscì a organizzare rocamboleschi e pericolosi trasferimenti di capolavori (da Piero della Francesca al Parmigianino, a Raffaello…), destreggiandosi fra bombardamenti, posti di blocco e controlli.
All’indomani della Liberazione, Gian Alberto Dell’Acqua si mise in contatto con i Monuments Officiers che erano entrati a Milano. Condusse il tenente Perry Cott, che conosceva per aver letto un suo studio su dei manufatti medievali, nei “depositi di guerra” sul Verbano, e il collega americano in uniforme si complimentò con il funzionario italiano per la cura meticolosa con la quale le opere erano state custodite e salvate. Fu l’inizio di una bella amicizia, sancita da una colazione a base di qualche verdura di campo e da una “razione K” condivisa.