Dal suo straordinario patrimonio, la Veneranda Biblioteca presenta una selezione di capolavori d'arte grafica del maestro e dei suoi discepoli, da Marco d'Oggiono a Boltraffio, dal Maestro della pala sforzesca a Francesco Melzi, a chiusura delle celebrazioni vinciane. Fino all'1 marzo.

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di Luca FRIGERIO

Un maestro è tale perché insegna. Sembra scontato, eppure ogni tanto val la pena di ricordarlo. In questo periodo, ad esempio, in cui si è molto parlato di Leonardo da Vinci, ricorrendo il quinto centenario della morte, giustamente e continuamente citato come “maestro”, appunto. Per la sua geniale originalità, certamente. Per il suo contributo in molti campi del sapere, senza dubbio. Per essere stato protagonista di una vera rivoluzione in campo artistico, è evidente. Ma anche per essere riuscito a trasmettere la sua esperienza e la sua conoscenza a un certo numero di allievi, che ne hanno così diffuso i prototipi e le invenzioni, riproponendone lo stile e l’uso particolare delle tecniche. Tanto che, se sono i suoi stessi capolavori – dal Cenacolo alla Gioconda – ad aver dato fama imperitura a Leonardo, sono stati certamente i suoi seguaci ad averlo consacrato quale mito universale.

A conclusione delle celebrazioni per questo importante anniversario, così, la Biblioteca Ambrosiana attinge ancora una volta al suo straordinario patrimonio di carte proponendo una selezione di disegni vinciani, a costituire una nuova mostra di alto profilo e di grande bellezza nelle sale della Pinacoteca. Capolavori d’arte grafica dello stesso Leonardo, innanzitutto, posti in dialogo con i lavori di quei discepoli che, direttamente o indirettamente, si sono formati alla sua scuola e hanno seguito i suoi precetti, ciascuno con la propria sensibilità e secondo il personale talento: da Francesco Napoletano al Maestro della pala sforzesca, da Cesare da Sesto a Giovanni Agostino da Lodi. Artisti, insomma, tutti “leonardeschi”, per il comune alunnato, e tuttavia singolarmente caratteristici.

I penetranti e affascinanti “ritratti di vecchi” di Leonardo, come quelli oggi esposti all’Ambrosiana (realizzati negli anni immediatamente precedenti la realizzazione dell’Ultima cena nel refettorio della Grazie), ora icastici e carichi di profondità, ora divertiti e quasi caricaturali, sono il risultato dei suoi studi di fisiognomica, del suo interesse per le espressioni umane e per la rappresentazione dei “moti dell’animo”, ma esprimono soprattutto una ricerca quasi ossessiva, emergente anche nei suoi scritti, in relazione al fondamentale problema dello scorrere del tempo.

Francesco Melzi fu tra i discepoli prediletti da Leonardo, quello a cui il maestro volle affidare la mole impressionante delle sue carte e dei suoi appunti, avendolo accanto fino all’ultimo respiro. E il suo profilo di uomo anziano all’Ambrosiana rivela, a nostro giudizio, tutta l’ammirazione e perfino l’affetto del giovane allievo per il proprio mentore: un mirabile disegno a gessetto rosso, che riprende un ricorrente modello leonardesco e che Francesco, con adolescenziale orgoglio, firma e data («1510, adì 14 augusto»), ricordando la sua età all’epoca della performance: «de anni 17».

Melzi si mise al seguito di Leonardo durante il secondo soggiorno milanese del maestro. Marco d’Oggiono e Giovanni Antonio Boltraffio, invece, furono allievi della prima ora. Entrambi sono citati da Da Vinci come vittime di un altro suo scolaro, quel Gian Giacomo Caprotti detto il Salaì («ladro, bugiardo, ostinato, ghiotto»: un “demonio”, cioè, come il terribile Saladino) che sottrasse loro un “graffio d’argento”, ovvero quel particolare strumento grafico, una punta metallica, che Leonardo aveva portato a Milano da Firenze quale assoluta novità nel campo del disegno.

Marco d’Oggiono era figlio di un orafo, aveva avuto una formazione da miniatore, conosceva il greco e studiava matematica e cartografia. Boltraffio invece era di estrazione nobiliare e di famiglia agiata: per lui la pittura dovette rimanere sempre un esercizio intellettuale e non un mestiere per vivere. I due, nell’atelier di Leonardo, si completavano a vicenda: l’uno esperto in scene sacre, l’altro specialista di ritratti. Come evidenziano anche i disegni presentati nella mostra dell’Ambrosiana, con un torso, forse un san Sebastiano, di classica compostezza del D’Oggiono e un portentoso studio di figura femminile del Boltraffio.

I disegni di Leonardo, insomma, servivano da modello e da ispirazione. Anche se il magistro suggeriva ai suoi allievi, dando per primo l’esempio, di tenere sempre a portata di mano penna e taccuino, per annotare dal vivo «l’azioni delli omini nelli loro accidenti»: schizzi e appunti da mettere da parte e serbare «al proposito», cioè da utilizzare quando se ne fosse presentata l’occasione. E, da autentico maestro qual era, non era geloso del successo altrui, ma anzi raccomandava ai discepoli di apprendere le tecniche anche da altri artisti meritevoli: come nel caso di “Gian di Paris”, ovvero Jean Perréal, pittore ufficiale di Luigi XII, dal quale, scriveva Leonardo, è buona cosa imparare «il modo di colorare a secco».

La mostra Leonardo da Vinci e il suo lascito. Gli artisti e le tecniche, a cura di Benedetta Spadaccini, è visitabile alla Pinacoteca Ambrosiana a Milano (piazza Pio XI) fino a domenica 1 marzo. Catalogo Silvana Editoriale.

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