Il domenicano francese Adrien Candiard è l’autore del monologo che va in scena venerdi 20 settembre nella Basilica dei Santi Apostoli e Nazaro Maggiore : «Senza amicizia non c’è possibilità che due esseri umani possano condividere la fede».
di Stefania
CECCHETTI
Adrien Candiard, frate presso il convento domenicano al Cairo e membro dell’Institut dominicain d’études orientales, è l’autore di Pierre e Mohamed, il testo teatrale che parla del vescovo cattolico che scelse di restare in Algeria negli anni del terrorismo e del suo autista musulmano che scelse di restargli accanto. Morirono insieme il 1° agosto 1996.
Padre Adrien, come conobbe la figura del vescovo Pierre?
La conobbi durante il mio noviziato. Di lui, domenicano come me, era rimasto il ricordo di una persona molto aperta e seria nello sforzo di dialogo interreligioso. Ho cominciato a leggere qualche suo scritto. L’ho trovato un autore molto solare. La sua fiducia in Dio e nell’uomo mi ha aiutato molto nella mia vita spirituale. Quando sono stato mandato in Egitto a occuparmi di Islam, gli ho chiesto aiuto nella preghiera.
Insomma, è entrato in una «confidenza spirituale» con lui…
Sì, e grazie a questa prossimità mi sono accorto che Pierre aveva tanto da dire a noi europei cristiani di oggi. Claverie ci offre la possibilità di uscire da un’alternativa catastrofica: da una parte la tolleranza che ci vuole tutti uguali, a scapito anche della nostra stessa fede, dall’altra il mantenere le proprie convinzioni, rifiutando ogni apertura. Lui è riuscito a vivere in mezzo agli algerini portando un rispetto completo non solo alle persone, ma anche al loro credo. Eppure, allo stesso tempo, è morto per la sua fede in Gesù, nella radicalità più assoluta. Una radicalità non identitaria e chiusa, ma propriamente cristiana.
Com’è nata l’idea di scrivere la sua storia?
Insieme a un confratello abbiamo pensato che valeva la pena di farlo conoscere attraverso i suoi stessi testi, in un piccolo spettacolo teatrale, da mettere in scena solo per noi in convento a Lille. Il mio confratello ha poi incontrato il regista Francesco Agnello ad Avignone, sede del Festival di teatro più grande di Francia, e c’è stata l’opportunità di portare in scena sette repliche lì. E oggi siamo a più di 1500 repliche.
Cosa ci dice di Mohamed?
Mi pareva impossibile parlare di Pierre senza parlare di amicizia e senza coinvolgere un algerino. Mohamed, che è morto con lui, era il personaggio più giusto. Ma lo conoscevo pochissimo, allora ho dovuto un po’ sognarlo. Sono contento perché mi hanno riferito che qualche anno fa, quando lo spettacolo è stato messo in scena ad Orano, la madre di Mohamed era presente e ha detto di aver riconosciuto suo figlio. È lui è personaggio più “umano” nello spettacolo, quello che parla alla gente.
Quali possibilità ci indica la loro amicizia?
Mi occupo di Islam e spesso mi chiedono se il dialogo col cristianesimo è possibile. Io rispondo sempre che non si può discutere di dialogo con 14 secoli di polemiche e battaglie alle spalle. Se vogliamo un dialogo non solo diplomatico, che tocchi le questioni vere della fede, ci vuole amicizia tra le persone. Senza amicizia non c’è possibilità che due esseri umani possano condividere la fede.
Lo spettacolo tocca anche il nodo scoperto dei rapporti tra Francia e Algeria?
Certo è un nodo sensibile, la relazione complicatissima tra questi due popoli non è finita con la guerra di indipendenza. Ma il bello è anche che lo spettacolo ha parlato a gente in nessun modo coinvolta in questa storia. Dopo una replica in Libano, una donna venne a dirmi che l’amicizia tra Pierre e Mohamed aveva tanto da dire anche ai libanesi di oggi.