Un’insolita quanto affascinante immagine mariana tra il Duomo di Milano e il nord Europa, a partire da un dipinto tirolese a Innsbruck e da una statua attribuita a Pietro Antonio Solari (1485 circa), oggi al Castello Sforzesco. Fra storia, simboli e Sacre Scritture.
di Luca
FRIGERIO
Al museo statale di Innsbruck, dedicato alla storia e all’arte del Tirolo, è conservata una tavola, alta poco più di un metro, sulla quale è dipinta una Madonna piuttosto “insolita”, almeno per quanto riguarda il panorama italiano: Maria, infatti, è raffigurata come una fanciulla sorridente, ritta in piedi, con le mani giunte sul petto nel gesto della preghiera, i lunghi capelli che scendono dietro le spalle fino quasi a terra, vestita di un abito blu adornato con dorate spighe di grano. L’opera, pregevole e graziosa, proviene dalla chiesa parrocchiale di Vipiteno, a una quindicina di chilometri a sud del Passo del Brennero, ed è databile alla seconda metà del XV secolo. Sulla cornice una scritta in tedesco e in caratteri gotici dichiara che quest’immagine è una copia fedele di quella, più grande, che si trova nel Duomo di Milano.
Nella cattedrale ambrosiana, tuttavia, oggi non è presente nulla del genere. Se però ci si sposta di poche centinaia di metri, nelle raccolte del Castello Sforzesco troviamo una statua in marmo a grandezza naturale che appare come la traduzione scultorea del dipinto tirolese: anche qui, infatti, abbiamo la figura di una giovane donna con le mani giunte sul petto e il vestito decorato con delle spighe. Si tratta della cosiddetta “Madonna del coazzone”, termine dialettale milanese che in passato indicava la lunga treccia che scende lungo la schiena della giovane. E quest’opera, attribuita a Pietro Antonio Solari che la realizzò tra il 1480 e il 1490, proviene proprio dal Duomo di Milano.
La devozione di «germanici e teutonici»
Facendo una rapida ricerca si può verificare che questa particolare iconografia mariana appare alquanto diffusa nelle aree di lingua tedesca (dove è nota con il nome di Maria im Ährenkleid, cioè Maria con l’abito di spighe), soprattutto in Tirolo e in Austria, appunto, ma anche dalla Baviera ad Amburgo, risultando invece rara, se non del tutto assente, in ambito italiano e, più in generale, nell’Europa meridionale. Eppure, come si è visto, il “fulcro” di questa devozione pare essere stato proprio Milano e il suo Duomo: una storia affascinante, tra arte e fede, che merita di essere ricostruita e indagata, cogliendo l’occasione dell’imminente solennità dell’Assunta.
Gli annali della Veneranda Fabbrica riportano che il 29 dicembre 1464 Cristoforo de Mottis, versatile artista impegnato nel cantiere del Duomo di Milano come pittore e come maestro vetraio, ricevette un pagamento per aver dipinto la figura di «Sanctae Mariae cum coazono». Sette mesi più tardi De Mottis venne incaricato dai fabbricieri di dipingere una tavola con l’effigie della Madonna secondo le sembianze di una statua d’argento della Vergine Maria, donata tempo prima dalla comunità tedesca presente a Milano e poi andata perduta (forse nel corso dei lavori di demolizione dell’antica basilica di Santa Maria Maggiore): il simulacro mariano era oggetto di una diffusa devozione, soprattutto da parte «dei germanici e dei teutonici», anche perché attorno ad esso si erano verificati numerosi miracoli e prodigi. Motivo per cui si raccomanda che la nuova tavola con la figura della Madonna con la treccia sia collocata bene in vista all’interno dell’erigendo Duomo.
Da queste scarne annotazioni, perlopiù di natura contabile, non è chiaro se Cristoforo de Mottis abbia lavorato ad un’unica opera, o abbia decorato in un primo tempo una statua preesistente per poi realizzare in seconda battuta un grande dipinto su tavola di legno di pioppo (alta quattro braccia, ovvero circa due metri e mezzo). Di certo tra maggio e settembre 1466 figurano ben tre pagamenti al pittore per l’oro e i colori utilizzati nell’esecuzione dell’immagine. Un’icona che non è giunta fino ai nostri giorni, ma che, possiamo immaginarlo, deve essere stata assai simile alla tavola di Vipiteno oggi a Innsbruck, di cui si diceva all’inizio.
Tredici anni più tardi gli Annali della Veneranda Fabbrica tornano a parlare della grande devozione verso questa Madonna da parte della comunità tedesca e di molti stranieri presenti a Milano, tanto che si decide di collocarla su un nuovo altare, anche perché il pilastro dove era posta nel frattempo era stato demolito. Per la prima volta si fa riferimento a una nuova statua, commissionata a Pietro Antonio Solari. L’impresa si rivela però piuttosto travagliata: il Solari, impegnato evidentemente anche in altri lavori, non riesce a rispettare i tempi di consegna concordati, al punto che i fabbricieri del Duomo gli intimano di restituire il blocco di marmo che gli era stato affidato, affinché altri lapicidi possano concludere l’opera.
La statua del Solari
Entro il 1490, comunque, la statua della “Madonna del coazzone” doveva fare bella mostra di sé nella cattedrale. Oggi, tuttavia, come abbiamo detto, non si trova più nel Duomo di Milano, ma può essere ammirata al Castello Sforzesco, dove è giunta negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia. L’effigie, infatti, nonostante la grande attenzione di cui era oggetto (e anzi, verrebbe da dire, proprio per questo: cioè per una devozione che talora sembrava sfociare in superstizione), fu rimossa dal suo altare in cattedrale attorno al 1580, cioè durante l’episcopato di san Carlo Borromeo, che volle mettere ordine anche tra le pratiche devozionali secondo i dettami del Concilio di Trento.
L’opera appare come uno dei migliori esempi della scultura lombarda del Rinascimento, dove la posa ieratica e solo apparentemente “rigida” della figura è elegantemente bilanciata dall’espressività del volto e dalla raffinatezza dei dettagli dell’abito e della capigliatura. Ci si chiede se un simile capolavoro possa essere stato realizzato effettivamente da Pietro Antonio Solari, più noto come architetto (al punto da essere chiamato alla corte degli zar per lavorare alla fortificazione del Cremlino: morirà infatti a Mosca nel 1493), che come scultore (questa, di fatto, sarebbe la sua unica opera milanese a noi nota); o non debba, invece, essere assegnato a suo cugino Cristoforo, detto lo Zoppo, l’autore della mirabile tomba di Beatrice d’Este e di Ludovico Sforza oggi alla Certosa di Pavia, che in quegli anni figurava come garzone di bottega presso di lui e che quindi avrebbe dato qui una prova precoce del suo talento…
I lunghi capelli della Vergine…
Agli occhi dei fedeli dell’epoca, l’elemento che più colpiva di questa immagine mariana doveva essere quello dei capelli, raccolti in parte in quella lunga treccia detta, appunto, “coazzone”. Un’acconciatura che era di moda tra le nobildonne della corte sforzesca, come rivelano anche diversi ritratti della seconda metà del XV secolo. Ma che legata alla figura di Maria assume anche un preciso significato simbolico, venendo a indicare cioè, quei lunghi capelli non coperti dal velo, la giovane età della donna, ovvero il tempo in cui la figlia di Anna e Gioacchino fu presentata al Tempio di Gerusalemme per essere formata ed educata ai sacri precetti, secondo il racconto dei vangeli apocrifi e della Legenda aurea.
Allo stesso modo, così, le mani giunte della ragazza non indicano soltanto la sua disposizione alla preghiera, ma rivelano in modo eloquente anche la sua docilità alla volontà divina, che ancora deve manifestarsi apertamente con l’annuncio dell’arcangelo Gabriele: obbedienza di colei che è stata scelta da sempre per generare il Verbo, il Figlio di Dio. E che questa sia un’immagine che rimanda all’Immacolata, a colei cioè che, unica tra le umane creature, è stata concepita senza essere toccata dal peccato originale, in passato appariva con maggiore evidenza ai fedeli perché ai piedi della statua, quando si trovava nel Duomo di Milano, era stata aggiunta una luna di metallo dorato, secondo il riferimento alla donna dell’Apocalisse.
…e i simboli della cintura e del grano
Il confronto si fa più stringente se si considera che sulla cintura della statua del Solari si leggono le parole: «Electa ut Luna», che non solo rimandano alla visione apocalittica, ma evocano chiaramente un noto versetto del Cantico dei cantici («bella come la luna, fulgida come il sole»), da sempre interpretato come segno della divina elezione di Maria. La cintura stessa, del resto, così ben evidenziata tanto nella statua milanese quanto nel dipinto tirolese (e che ritorna anche in una scultura oggi conservata al Museo del Duomo di Milano, degli inizi del XV secolo, con tanto di “coazzone”), è il simbolo non soltanto della castità di Maria, ma già prefigurazione del mistero della sua maternità virginale: strumento dell’Incarnazione di Dio, lei è il vero “nodo” tra il mondo terreno e quello celeste.
Ma l’elemento forse più bello e più commovente di questa particolare iconografia mariana è proprio la decorazione con le spighe sulla veste della Vergine. Perché Maria, secondo la poetica interpretazione dei padri della Chiesa, è davvero il terreno fertile del Signore, è il campo di grano che, senza essere arato, ci ha dato il pane di vita, Gesù che dice: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Così che tutta la storia della salvezza è infine presente in questa immagine: la Vergine Madre, il Verbo fattosi uomo, il mistero eucaristico attorno a cui si raduna il popolo di Dio, la Chiesa stessa, come tanti chicchi di grano.