Illustrando i contenuti del convegno promosso dalla Pastorale della salute, l’oncologo, primario emerito del Fatebenefratelli, sottolinea il ruolo di medici, infermieri, volontari, familiari, cappellani: «Non è importante solo la cura, ma anche la vicinanza: l’umanità è un fattore terapeutico in sé»
di Annamaria
BRACCINI
Chi è l’eroe nella cura del malato? Questo il titolo del convegno annuale del volontariato in programma giovedì 9 maggio presso la Curia arcivescovile. «Il paziente, che deve subire cure spesso importanti, è il primo eroe, nel senso che c’è una sopportazione di tanti momenti di difficoltà per riuscire a risolvere i problemi», dice a questo proposito il professor Alberto Scanni, primario emerito dell’Ospedale Fatebenefratelli, oncologo di altissima fama, relatore al convegno.
Su cosa focalizzerete la vostra attenzione?
In questa occasione vogliamo parlare anche di coloro che definirei «i piccoli eroi». Infatti, attorno al paziente, ci sono degli eroi che lo accudiscono: medici, infermieri, volontari, familiari, cappellani. Una serie di figure fondamentali.
Per quanto attiene ai medici, – se può passare l’espressione – c’è qualcuno più “eroe” degli altri? Penso a chi si occupa, per esempio, dei bambini con il loro dolore innocente, o degli anziani con le lungo degenze…
Lo sono tutti. Oltre a curare dobbiamo poter dare speranza, nel senso di continuità della vita. Quindi, nel grande come nel piccolo, ci possono essere persone che hanno maggiori o minori responsabilità, ma direi che tutti sono spinti a essere attivi ed eroici, in pari grado, nei riguardi del malato.
Oggi si dice spesso che, oltre le terapie, ciò che funziona davvero è il prendersi cura, l’I care. Sappiamo quanto sia importante anche la vicinanza di chi sostiene con la fede e la preghiera. Per questo è necessaria un’alleanza umana in senso ampio?
L’alleanza di cura è cruciale: non è importante solo curare, ma anche essere vicini al malato e avere la capacità di dialogare con lui, soprattutto, di ascoltarlo. Spesso gli operatori della sanità non si rendono conto dell’importanza della parola, non necessariamente della parola parlata, ma anche delle comunicazioni non verbali, ossia la possibilità di leggerezza, di accoglienza nei riguardi del paziente. L’incontro di due umanità è fondamentale, proprio perché l’umanità è un fattore terapeutico in sé.
Lei è stato a lungo primario al Fatebenefratelli, ora è primario emerito. Nella sua esperienza è cambiato qualcosa, in questi ultimi anni, come sensibilità diffusa nel rapporto medico-paziente?
Certo. Il settore di cui mi sono occupato, dirigendo anche l’Istituto dei Tumori di Milano, riguarda una patologia difficile come l’oncologia, per la quale direi che, in questi anni, l’aspetto dell’umanizzazione è risultato decisivo in maniera assoluta. Sono convinto che, da questo punto di vista, vi siano stati un affinamento e un miglioramento notevoli. Soprattutto alcune branche hanno perfezionato molto il modo di porsi nei riguardi del malato, come nell’oncologia, nelle cure palliative, nel contesto di tutto ciò che si occupa di terminalità e delle situazioni più delicate. Non avrei dubbi nel dire che le cose sono migliorate o sono in fase di miglioramento. Certo, resistono atteggiamenti legati a situazioni particolari o individuali, “sacche” di non sensibilità; però, in linea di massima, si stanno facendo grandi passi avanti e su questa strada occorre continuare.
In conclusione, qual è l’arma più innovativa che hanno a disposizione i medici impegnati nella trincea di quella guerra sanguinosa che è la malattia grave?
Un’arma insieme semplice e formidabile: la parola, l’ascolto e il trasmettere speranza.