Quello dell'Arcivescovo è un invito pacato a un onesto esame di coscienza rivolto a tutti: cittadini, politici, pubblica amministrazione, intellettuali e istituzioni culturali
di Franco
MONACO
Il Discorso alla Città del vescovo Delpini è un prezioso contributo al discernimento dello spirito del tempo e, segnatamente, dell’ethos pubblico. Non solo nostrano. Un testo originale, perspicace, coraggioso. Significativo il brano della lettera di Giacomo dal quale trae spunto: un appello alla sapienza e alla mitezza quale antidoto alla «gelosia amara» che genera «spirito di contesa», «disordine”, «cattive azioni». È di qualche giorno precedente la pubblicazione dell’annuale rapporto del Censis che già lo scorso anno condensava il sentimento dominante del Paese nella cifra del «rancore» e ora in quella dell’incattivimento collettivo, con la ricerca del capro espiatorio. Un tema che si ritrova in Delpini.
Con finezza e con equilibrio, tuttavia egli muove un appunto critico un po’ a tutti gli attori. Diciamo così, li stimola a un onesto esame di coscienza. Nell’ordine: ai cittadini (non a caso, menzionati per primi), ai politici, alla pubblica amministrazione, agli intellettuali e alle istituzioni culturali. Già il primato assegnato ai cittadini testimonia il timbro antidemagogico che connota l’intero Discorso. Di norma, infatti, i cittadini sono oggetto di blandizie, non di severo richiamo ai loro doveri. A essi l’Arcivescovo chiede di non consegnarsi alle emozioni, alla reattività negativa, ma di farsi guidare dalla ragione; di non confondere le «legittime aspettative» con le «pretese arroganti»; di non abboccare agli «slogan gridati» e di non indulgere a un atteggiamento di «pregiudiziale discredito verso le istituzioni». Una frase riassume bene il senso di tale monito: «La convivenza sarebbe più serena se, dominando l’impazienza e le pretese, potessimo essere tutti più ragionevoli, comprensivi, realisti nel considerare quello che si fa, quello che si può fare per migliorare e anche quello che non si può fare». Sottinteso: da parte del potere pubblico. Un chiaro monito a non chiedere l’impossibile, cui corrispondono le fallaci promesse della politica.
In secondo luogo, appunto un richiamo ai politici affinché non cavalchino strumentalmente le emozioni, gli umori, le paure, i pregiudizi, con «slogan riduttivi». L’opposto di «elaborazioni persuasive» fondate su «informazioni oggettive». L’onestà intellettuale, l’aderenza ai fatti nella loro oggettività sarebbero già un grande contributo, oggi spesso negletto, alla civile convivenza e alla buona politica nel tempo delle fake news. Qui il Vescovo dà credito a una positiva differenza ambrosiana: il pragmatismo, un buon senso beninteso. Mi piacerebbe convenire, ma non ne sono così sicuro. Dai nostri territori sono effettivamente sortite novità nello scenario della vita pubblica e politica del Paese, ma di segno diverso, talune buone, altre meno.
Terzo: la pubblica amministrazione, nel suo doppio versante degli amministratori eletti e dei pubblici funzionari. Qui Delpini muove un appunto critico a certo anonimato, formalismo, burocraticismo che scoraggia la libera iniziativa economica e sociale dei cittadini. Che li deprime o li esaspera. Una ottusità dell’amministrazione che muove da una pregiudiziale diffidenza nei confronti del cittadino, quasi che esso, sempre e per definizione, fosse meritevole di essere sospettato. Difficile dissentire. Salvo osservare l’altra faccia della medaglia: un diffuso deficit di civismo e di cultura della legalità, attestato dal volume della evasione e dell’elusione fiscale, specie nelle regioni del Nord.
Infine – quarto – le responsabilità di chi professionalmente si occupa di «pensare». Con arguzia, Delpini si domanda se li si possa «disturbare». La stessa ironia che si rinviene nel titolo assegnato al discorso: «Autorizzati a pensare». Quasi che fosse necessario essere autorizzati a un esercizio dell’intelletto che è un elementare, preciso dovere. E come a rimarcare – azzardo io – che forse sarebbe lecito attendersi di più dagli uomini di pensiero e dalle alte istituzioni culturali e formative, a cominciare da quelle cattoliche. Su questo specifico fronte, il Vescovo, dopo essersi richiamato a due Pontefici singolarmente versati per il valore del pensiero e della cultura (Montini e Ratzinger), suggerisce cinque sintetici spunti: fare dell’Europa – così come intesa dai suoi Padri fondatori – e della Costituzione (esemplare per metodo dialogico e per merito valoriale) le due stelle polari sulle quali auspicabilmente convergere; considerare che oggi l’avversario sistemico non sono più le vecchie ideologie novecentesche ma l’utilitarismo e l’hybris della tecno-scienza, correnti antimetafisiche; la convinzione che le concrete ed effettive priorità programmatiche siano quattro – declino demografico, povertà, disoccupazione, solitudine – e che sulla loro priorità in agenda non dovrebbe essere difficile convenire, salvo farsele dettare dalle emozioni suscitate dalle cronache: è il caso della esasperazione dell’emergenza (?) immigrazione; la cura per il legame sociale che faccia perno sulla risorsa-famiglia, dentro l’anomia, il funzionalismo e la frammentazione delle relazioni, ; il contributo delle religioni alla buona politica e alla qualità etica della società.
Qui opportunamente Delpini cita un passo del discorso di papa Benedetto al Parlamento inglese: «Il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire le norme obiettive che governano il retto agire, come se esse non potessero essere conosciute dai non credenti – ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare a purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi». Una pagina limpida che, nella chiara distinzione e nella connessione appropriata, propizia il giusto rapporto tra religione e politica, esaltando il contributo di entrambe. Aggiungo di mio: essa suggerisce che il nostro attuale problema non è quello della ricostituzione di “partiti cattolici”, né quello di chi strumentalizza la religione a fini politici cedendo alla suggestione della “religione civile” in un mix di nazionalismo e di malintesa tradizione cristiana.
Qui mi fermo, perché non voglio far dire al Vescovo ciò che invece è affidato al libero confronto dentro e fuori della Chiesa. Ma appunto qui non si possono fermare coloro che vogliono prendere sul serio il Discorso di Sant’Ambrogio e farlo calare nel vivo del pubblico confronto, assumendosi le autonome proprie responsabilità.