Il teologo riflette sul pronunciamento dell’Arcivescovo: una convinta e rinnovata alleanza di civiltà non può prescindere da una convinta presa di distanza dagli estremismi alimentati da un “sapere” che, da solo, non basta

di monsignor Pierangelo SEQUERI
Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II

Sequeri
Monsignor Pierangelo Sequeri

Dedicare mente e cuore al bene della comunità ci renderà più intelligenti (non siamo particolarmente performanti, su questo punto dell’intelligenza comunitaria, noi ultramoderni). La città ultramoderna degli individui liberi e uguali ci appare sempre più come una fabbrica di massificazione e di indifferenza, che rende la convivenza insopportabile: facile all’isteria, arrendevole alla prepotenza.

Per riattivare la dedizione al bene comune, che ci fa ritrovare l’esperienza del vivere insieme come una gioia da esplorare e non come un ostacolo da rimuovere, dobbiamo ridiventare decisamente più riflessivi. E più precisamente, dobbiamo fare del bene comune l’oggetto dei nostri pensieri migliori, dei nostri scambi più appassionati, dei nostri progetti più ambiziosi. In altri termini, dobbiamo prendere distanza dagli estremismi della razionalità tecnocratica e dell’emotivismo pulsionale, per stringere una convinta e rinnovata alleanza di civiltà. Il suo asse non è la competizione per il consumo e il godimento individuale individuale, a qualsiasi prezzo, dell’umano-che-ci-è-comune. Il suo asse è il ritrovato entusiasmo per le soddisfazioni della vita comune: ricomposta intorno all’amore della ragionevolezza che ci fa umani e comprensivi dell’umano. Questa soddisfazione va estenuandosi, seminando una isterica propensione all’insoddisfazione senza perché e una crescente disposizione all’aggressività senza movente.

Una questione seria, presa piuttosto alla leggera, direi. La questione seria, appunto, è il buco nero che sta – troppo ignorato – al centro di tutte le diagnosi negative sull’individualismo: il vuoto d’amore e di sacrificio per la comunità, nel suo senso più comprensivo e insieme più specifico, del quale, semplicemente, non si parla più.

Mi sento stimolato a visualizzare questo focus come mia reazione alla provocazione contenuta nel Discorso alla Città dell’Arcivescovo. Nel suo elegante understatement (cifra discorsiva al quale l’Arcivescovo ci ha ormai abituati), il punto di impatto scuote come un colpo di maglio. A cominciare dalla sottile ironia del titolo, che diventa, nel testo, come un ritornello (figura celeberrima della retorica antica, che un Arcivescovo coltivato nelle lettere classiche deve inevitabilmente saper usare con perizia). «Siamo autorizzati a pensare». Come se dovessimo riscoprirlo, proprio noi, figli dell’Illuminismo! Eppure l’ironia si infila sapientemente anche qui. Il motto di Kant che riassume lo spirito dei Lumi, infatti, sapere aude («abbi il coraggio della scienza»), intende che non dobbiamo sentirci autorizzati proprio da nessuno nella nostra volontà di sapere. Il Vescovo ribatte amabilmente: guardate che il comandamento di pensare non è una minaccia per la libertà. Al contrario. “Pensare” è indispensabile per essere umani. “Sapere” è condizione necessaria, ma non sufficiente. Si può anche diventare portatori ottusi del sapere, come le macchine degli algoritmi, se nessuno ti ha insegnato a pensare. Pensare è lo stile umano – inconfondibile – dell’interiorità che annuncia un essere umano. Il sapere, da solo, non è capace di tutto questo. Muove robottini funzionanti, organizza insetti ingegnosi: non cava niente di umano da niente. La circolazione della riflessività umana, soltanto, è capace di trasformare la convivenza in un piacere spirituale.

La ricostruzione di questo ragionevole affetto per il bene del vivere insieme rende la comunità umana migliore dei nostri difetti individuali. Il contrario esatto del luogo comune: i singoli sarebbero buoni, ma la collettività è pessima. Non è vero. I singoli sono sempre anche peccatori, ma l’amore per la comunità – che sia bella, ammirata, senza macchia – santifica anche vite altrimenti perdute.

L’effetto-Chiesa nella città, per il quale dovremo spenderci con più riflessiva generosità e meno polemiche corporative, si misurerà d’ora in avanti a partire di qui. La lotta non è con le creature umane, ma con le potenze rissose, avide, arroganti, prepotenti, che alimentano le pulsioni di «tutto e subito, e prima di tutto per me». La scelta del testo di Giacomo – la lettera delle opere di una comunità amata e amabile, che fanno vera la fede ecclesiale dei credenti, e sperabile la vita della comunità, per tutti – è semplicemente perfetta. Essa autorizza l’ultramoderna città dell’uomo a pensare seriamente al tesoro che la nostra governance, con tutta la sua scienza e la sua tecnica, sta seriamente rischiando di perdere. La Chiesa è disposta a farsi testimone della possibilità per la città ultramoderna di riprendersi dall’incantamento e a ripristinare l’amore – doni e sacrifici – per la comunità del vivere insieme. Il futuro della città non è deciso dalla skyline e dalla toponomastica. La sua possibilità di rimanere umana è legata, senza scampo, al modo umano di pensarla. Siamo autorizzati a farlo, senza accampare scuse.

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