Un libro di Cristina Cattaneo, medico legale, fa luce su un aspetto del dramma dei migranti talvolta sottovalutato: la difficile identificazione di migliaia di vittime dei “viaggi della speranza”
Il corpo di un ragazzo con in tasca un sacchetto di terra del suo Paese, l’Eritrea; quello di un altro, proveniente dal Ghana, con addosso una tessera di donatore di sangue e una della biblioteca pubblica del suo villaggio; i resti di un bambino che vestono ancora un giubbotto la cui cucitura interna cela la pagella scolastica scritta in arabo e in francese. Sono i corpi delle vittime del Mediterraneo, morti su barconi fatiscenti nel tentativo di arrivare nel nostro Paese, che raccontano di come si può “morire di speranza”. A molte di queste vittime è stata negata anche l’identità: l’emergenza umanitaria di migranti che attraversano il Mediterraneo ha restituito infatti alle spiagge europee decine di migliaia di cadaveri, oltre la metà dei quali non sono mai stati identificati.
In Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo (Raffaello Cortina Editore, 198 pagine, 14 euro) Cristina Cattaneo, attraverso il vissuto di un medico legale (la sua professione), racconta il tentativo di un Paese di dare un nome a queste vittime dimenticate da tutti, e come questi corpi, più eloquenti dei vivi, testimonino la violenza e la disperazione del nostro tempo.
L’autrice è professore ordinario di Medicina legale presso l’Università di Milano e direttore del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense). È attualmente coinvolta con l’Ufficio del Commissario straordinario per le persone scomparse nell’identificazione dei migranti morti in mare, in particolare per i naufragi di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015.