In diocesi da tre anni è presente un tavolo di lavoro che si adopera per sensibilizzare e formare a una pastorale capace realmente di accogliere tutti
di Mauro
Santoro
O tutti o è meglio chiudere la parrocchia. Questa affermazione non vuole essere provocatoria o “a effetto”, ma un richiamo a un’affermazione che papa Francesco ha pronunciato in occasione del convegno svoltosi nel giugno 2016, durante il Giubileo dei disabili: «Ma pensate a un sacerdote che non accoglie tutti: che consiglio darebbe il Papa? “Chiudi la porta della chiesa, per favore! O tutti, o nessuno”».
Questo “slogan” ha dato il nome a un tavolo di lavoro che nella Diocesi di Milano si è costituito a partire dall’ottobre 2015, al quale siedono Servizio per la catechesi, Fom, Caritas ambrosiana, Csi e alcune realtà legate alle disabilità sensoriali. Ha lo scopo di promuovere un processo di sensibilizzazione e formazione perché in tutte le comunità parrocchiali le persone con disabilità possano “sentirsi a casa”, facendo esperienza dell’amore di Dio, Padre di tutti.
Nella Chiesa si registra una diffusa attenzione verso la disabilità nelle sue diverse forme (fisica, mentale e sensoriale) e un atteggiamento di generale accoglienza. Anche nella nostra Diocesi si sono moltiplicate, soprattutto in questo ultimo decennio, esperienze molto positive. Tuttavia le nostre comunità fanno ancora fatica a praticare una vera inclusione, una partecipazione piena che diventi ordinaria, normale.
Difficoltà e ostacoli
Perché ancora permangono difficoltà e ostacoli di vario genere? Qualcuno evidenzia la mancanza di una certa sensibilità nelle parrocchie, in particolare da parte di chi dovrebbe averne primo fra tutti: preti, persone consacrate e operatori pastorali.
Molti altri operatori pastorali sono convinti che la buona volontà non sia sufficiente e che sia necessario anzitutto una formazione specifica (ancora poco presente) per imparare a disporsi in modo adeguato verso ragazzi con disabilità. Nel corso di questi ultimi anni, in molte delle nostre comunità si denuncia la mancanza di persone che possano occuparsi della pastorale ordinaria, per cui trovare operatori che abbiano un’attenzione specifica per la disabilità pare quasi impossibile.
Sono alcune delle motivazioni (insieme a tante altre non ancora affrontate) per cui la sensibilità verso i ragazzi con disabilità non è ancora diventata «un’attenzione necessaria nella vita quotidiana della Chiesa», come recitava il sottotitolo del primo convegno internazionale su catechesi e disabilità, svoltosi nell’ottobre 2017.
Lasciarsi sconvolgere
Perché lo diventi credo che anzitutto il passo da compiere da parte di ogni comunità, prima ancora di “munirsi” per dare risposte adeguate, sia quello di essere disponibili a lasciarsi sconvolgere, a lasciarsi mettere sotto sopra…
La sfida dell’inclusione pone la questione di quanto le nostre comunità siano capaci di riconoscere e accogliere tutti, custodendo la certezza che ogni persona è unica e irripetibile, e ogni volto escluso è una forma di impoverimento della parrocchia. Se dovessimo prendere sul serio quel “tutti”, così come il Signore fece a suo tempo, per le strade della Palestina («conducevano a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici…», Mt 4,24), intuiremmo che i primi da avvicinare sono proprio quelli che, immediatamente, terremmo lontani, perché ci mettono in crisi, perché sembrano un’insidia alle nostre certezze, perché mettono in discussione quello che abbiamo sempre pensato, fanno tremare la falsa sicurezza di sentirci a posto.
Pensiamo alla reazione degli scribi e dei farisei quando Gesù accoglieva “tutti”, ammalati, peccatori e persone deboli; proprio quelli che loro, capi religiosi del tempo, “scartavano”. Quel modo di fare di chi si dichiarava Figlio di Dio era un vero e proprio attentato al loro: “Ma noi abbiamo sempre pensato così, ci siamo sempre comportati così, ci siamo sentiti sempre nel giusto”. Un affronto così alto era troppo difficile da accettare.
Sono proprio vere le parole di papa Francesco quando scrive: «L’attenzione dedicata alle persone con disabilità è un segno dello Spirito. Infatti entrambe le situazioni sono paradigmatiche: mettono specialmente in gioco il modo in cui si vive oggi la logica dell’accoglienza misericordiosa e dell’integrazione delle persone fragili» (AL, n. 47).
Non si tratta solamente di diventare un po’ più buoni, più accoglienti e più esperti. Come ai tempi di Gesù non saremo capaci di reale accoglienza se anzitutto non saremo disposti a lasciarci sconvolgere nei nostri modi di pensare e di agire che abbiamo utilizzato fino ad ora per fare accoglienza.
Non basta solo più formazione
Il rischio, invece, è quello di pensare che basti un surplus di formazione, qualche attenzione in più da imparare, qualche tecnica da affinare, perché così facendo ci si illude di gestire il nostro senso di inadeguatezza. Non si tratta di implementare, ma forse di cambiare, di lasciarci cambiare, di attuare una vera conversione di stile.
Non si tratta di mutare qualche aspetto della pastorale ordinaria o inventarsi qualcosa di originale. Permettere alle persone con disabilità (così come a tutte le persone fragili) di far parte del corpo della Chiesa, comporta che il volto di una comunità cambi, inevitabilmente. È questa la cosa più difficile. Aprire le porte a ragazzi con disabilità è una scelta scomoda, perché “costringe” tutti a misurarsi con la dimensione del limite, aspetto che i cosiddetti normodotati tendono a nascondere o dimenticare.
Una Chiesa in uscita
Per una comunità cristiana nella quale s’insinua l’idolo dell’efficienza e dell’efficacia, la presenza di ragazzi con limitazioni evidenti è una fortissima provocazione, che costringe a fare i conti con i criteri e gli stili di una pastorale che si conforma sempre più alla sapienza di questo mondo: prestante, veloce, numericamente vincente. Non può essere anche questa una via che lo Spirito ci indica per realizzare concretamente una Chiesa in uscita, che papa Francesco auspica fortemente?
La domanda è spontanea: uscire, ma verso dove? Non ci sono ovviamente risposte a priori o soluzioni già fatte, c’è, invece, un cammino di discernimento da compiere che richiede coraggio e fiducia. Sono convinto che se imparassimo ad ascoltare seriamente i ragazzi con disabilità, loro ci aiuterebbero a trovare la strada.28