Il "Riposo durante la fuga in Egitto" è un’opera meravigliosa, che racchiude il senso più vero del Natale, e che oggi è esposta nella grande mostra a Milano dedicata a Michelangelo Merisi.
di Luca
FRIGERIO
C’è una fiasca, lì in basso, a sinistra. Avvolta nella corda, per proteggere il fragile vetro dagli urti, durante il viaggio. E per tappo, un pezzo di stoffa ficcato nel collo della bottiglia, per non perdere neppure una goccia del prezioso liquido.
Fa perfino tenerezza, quest’antica borraccia. Dice dell’andare, di un lungo cammino per luoghi riarsi, della preoccupazione della sete: un buon padre di famiglia deve pensare anche a questo… Ma la fuga sta ormai per concludersi. Dalla parte opposta, infatti, già si intravede dell’acqua: un fiume, un’oasi. La meta è raggiunta, ci si può infine riposare.
È sorprendente come siano spesso i dettagli, anche minuti, anche apparentemente marginali, ad attirare la nostra attenzione. Anche, o soprattutto, in capolavori di struggente bellezza come il Riposo durante la fuga in Egitto del Caravaggio.
Impossibile distogliere lo sguardo. Tutto è pace, tutto è poesia in questo dipinto, dove il colore si fa melodia.
L’occhio nerissimo dell’asino ci scruta, complice e premuroso.
E ci si ritrova a trattenere il fiato, immobili, per non disturbare il sonno del Bambino Gesù e di sua madre, rapiti, noi, da una musica dolcissima che le nostre orecchie non odono, ma che fa vibrare la nostra anima di una gioia ineffabile. Come già dovette accadere ai pastori chiamati alla grotta di Betlemme, contemplando il Mistero.
Una famiglia in fuga
Betlemme ormai è lontana. Betlemme, la città illuminata dalla stella che aveva annunciato la nascita del Figlio di Dio, ora bagnata dal sangue innocente, straziata dalle urla di madri disperate. I Magi erano appena partiti, quando un angelo apparve in sogno a Giuseppe, dicendogli: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finchè non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo» (Matteo 2, 13). E Giuseppe così aveva fatto. Senza indugio, ancora una volta ubbidiente.
Quello della fuga in Egitto è tema caro alla tradizione dell’arte cristiana. Racconta, come per esorcizzarla, della ferocia umana, la più terribile, la più vergognosa, quella di chi non esita a colpire degli esseri inermi e indifesi pur di proteggere il proprio potere e i propri interessi. Ma racconta soprattutto della nuova alleanza fra Dio e il suo popolo, attraverso il compimento delle antiche profezie.
Michelangelo Merisi, tuttavia, non propone qui la consueta immagine della Sacra Famiglia in fuga, ma, pur nella fedeltà al passo evangelico, ci mostra Giuseppe, Maria e il divino Infante in un momento di sosta, seduti per terra, stanchi, possiamo immaginarlo, dal lungo vagare.
Raffigurata sulla parte destra della tela, Maria, accovacciata, stringe al petto il piccolo Gesù, cullandolo, in un gesto di protezione e di materna tenerezza. La sua guancia preme, più che sfiorare, sul capo del bambino, come a voler trasmettere calore, e infinito affetto. Entrambi, madre e figlio, hanno gli occhi chiusi, come se si fossero appena assopiti: il braccio destro della Vergine, infatti, ricade inerte sulle ginocchia.
Giuseppe, la fiducia
Giuseppe, sull’altro lato del quadro, è ritratto come voleva la tradizione, cioè più maturo rispetto alla sfolgorante giovinezza di Maria, i capelli argentati, la folta barba screziata. Appare seduto su un sacco: le poche cose che è riuscito a raccogliere e a portare con sé in quella fuga precipitosa. I suoi piedi sono privi di calzari, probabilmente indolenziti dal molto camminare: con sorprendente realismo, Caravaggio ce li mostra uno sovrapposto all’altro, come se Giuseppe non sapesse bene dove posarli, quei piedi nudi, perché il terreno è cosparso di pietre e di piccoli inciampi. O, ancora, come se l’uomo cercasse di massaggiarseli un poco, discretamente, mentre assorto osserva e ascolta l’angelo davanti a lui.
Noi lo vediamo di spalle, questo essere alato. In piedi, pudicamente velato da un serico lino, l’angelo si mostra in tutta la sua conturbante, incorruttibile bellezza, che non è androgina né effeminata, ma in verità sovraumana, asessuata, sintesi della sua divina natura. L’immagine sublimata della creazione stessa, in cui si fondono cielo e terra, sensualità e spiritualità.
Intento a suonare, lo dipinge Caravaggio, con meravigliosa invenzione: fra le mani, infatti, tiene un violino e il suo archetto. Ma, cosa curiosa, l’angelico musicista non sta eseguendo un motivo “a memoria”, né sembra improvvisare, bensì legge le note su uno spartito che gli porge lo stesso Giuseppe…
Un uomo maturo, un discendente della stirpe di David “ridotto” a fare da leggio, pur se ad un angelico araldo? Dovrebbe sorprenderci quest’immagine, e invece intuiamo che non c’è proprio nulla di cui stupirsi… Giuseppe è colui che si è fidato. Di Dio, innanzitutto. Di quel suo angelo che l’ha visitato per dirgli di non temere nel prendere come sua sposa Maria «perché quello che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Matteo 1, 20-21). E ancora di quel messaggero divino che, in sogno, gli ha ordinato di fuggire per mettere in salvo Gesù e sua madre. Sì, Giuseppe ha avuto fiducia. E continua ad averne. Seduto sul suo sacco, guarda l’angelo che suona davanti a lui, anche per lui, e forse ancora non sa decidersi se sta sognando a occhi aperti o se sta succedendo davvero, ma poco importa: lui la sua scelta l’ha già fatta, ha già deciso di affidarsi totalmente al Signore. E di servirlo. Umile e mansueto come il suo asino, che li ha portati fino a lì, in Egitto. Quell’asino che s’avvicina anch’esso come per ascoltare meglio la divina melodia, guancia a guancia con il suo padrone.
Un’annotazione, quest’ultima, che non ha soltanto un valore “pittoresco”, per così dire. La vicinanza fra l’uomo e l’animale, fra Giuseppe e l’asino, infatti, si può interpretare in questo contesto come un rinnovato modo di vivere il Creato da parte delle sue creature, alla luce di quella nuova alleanza realizzata sulla terra dalla nascita stessa di Cristo, il nuovo e ultimo Adamo.
Di fondamentale importanza è il fatto che Caravaggio pone questa figura angelica proprio al centro del quadro, come a dividere la scena in due ambiti ben precisi e quasi a “separare” i personaggi della Sacra Famiglia: da una parte, l’abbiamo visto, Giuseppe e l’asino; dall’altra, Maria e Gesù. L’angelo, insomma, rappresenta qui il punto di intersezione fra la realtà materiale e quella spirituale, è il tramite fra il terreno e il divino, in una progressione che dal mondo animale sale all’uomo per arrivare, attraverso Maria (la beata fra le donne), fino al Dio incarnato, il Redentore.
Il nuovo Adamo
Per avere conferma di tutto ciò, del resto, basta osservare con attenzione i differenti contesti in cui il pittore inserisce le sue figure. Il terreno su cui ancora poggia i piedi Giuseppe, infatti, l’abbiamo già notato, è brullo e petroso, privo d’erba e quindi, metaforicamente, sterile e desertico: vi si scorgono, con straordinario tocco realistico, persino le orme degli zoccoli dell’asino! Giuseppe è dunque il simbolo dell’umanità intera in cammino. Di quell’umanità che, cacciata dal giardino dell’Eden a causa del peccato originale, è costretta ad errare attraverso un «suolo maledetto», come si legge nel libro del Genesi. Ed è dunque l’emblema, la memoria stessa del popolo d’Israele che vaga nel deserto in attesa di poter raggiungere la Terra promessa…
Ben diverso, invece, è l’ambiente in cui sono inseriti Maria e il Bambino Gesù. Attorno a loro, infatti, si nota il fiorire di una natura generosa, lussureggiante, persino. Sì, è questo il nuovo Eden, sono questi i cieli nuovi e la terra nuova che sono stati promessi all’umanità finalmente redenta, e che l’angelo annuncia con note celestiali.
Musica celestiale, armonia divina, certo. Ma che “tipo” di musica sta suonando l’angelo di Caravaggio? Inizialmente si era pensato a una generica “ninna-nanna”, dolce e suadente, adatta a cullare il sonno del Bambin Gesù e capace di ricreare quell’atmosfera di ammaliante serenità che pervade ogni cosa. Questo fino a quando quelle note non sono state esattamente individuate, invece, in uno specifico mottetto, quello composto attorno al 1520 dal franco-fiammingo Noël Bauldewijn, che mette in musica proprio il testo biblico del Cantico dei cantici, e precisamente le parole del settimo capitolo, a partire dal settimo versetto: «Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie!».
Una dichiarazione d’amore lirica e appassionata, insomma, che l’amato rivolge alla sua amata. Come del resto avviene in tutto il Cantico stesso, un vibrante dialogo fra lo sposo e la sposa che diventa un inno all’amore di straordinaria intensità e di ineguagliata poesia.
E in questo dipinto, effettivamente, noi abbiamo due sposi, cosicché lo stesso Giuseppe sembra fare omaggio di quei versi proprio a Maria. Come una romantica, mistica “serenata”, insomma, che dolcemente accompagna il riposo della sposa, Maria…
Ma c’è ancora di più, lo intuiamo. Se il Cantico dei cantici, infatti, esprime tutta l’intensità sponsale tra Dio e il suo popolo, nella tradizione patristica esso viene letto anche con riferimento allegorico a Cristo, lo Sposo, e la sua Chiesa, la Sposa, di cui la Vergine è come l’incarnazione e l’emblema più alto. Non a caso, infatti, proprio questi versetti del poema biblico erano entrati a far parte delle funzioni liturgiche in onore della Madonna.
Ecco allora che questa musica – davvero sacra, liturgica perfino – diventa essa stessa una lode alla Vergine, che è simbolo della Chiesa vivente, tabernacolo del Signore, come ce la mostra chiaramente Caravaggio, in quell’abbraccio teso ad avvolgere e a custodire Gesù, suo figlio, redentore dell’intera umanità.
Allo stesso modo, le lodi che lo sposo rivolge alla sposa si adattano perfettamente alla raffigurazione di Maria, soprattutto là dove si dice che «il tuo collo è come una torre d’avorio» e che «la chioma del tuo capo è come la porpora»: eburneo, luminosamente candido, infatti, è il collo della Madonna dipinto dal Merisi; e rossi sono proprio i suoi capelli!
L’alba che sorge
È l’alba di un nuovo giorno.
Tutta la notte la Sacra Famiglia ha viaggiato per fuggire dalla furia omicida di Erode, ma ora la salvezza è vicina. Più vicina di quanto si possa immaginare, in quei piedini paffuti di un Bambino addormentato, in quelle morbide guance che attirano baci.
La fiasca del previdente Giuseppe non serve più.
Ora ci si può abbeverare direttamente alla fonte viva, a quella inesauribile sorgente di vita che è Cristo. La fuga è finita, la nostra sete è placata. Per sempre.
Un percorso fra arte e fede, alla ricerca della spiritualità del Caravaggio, è proposto da Luca Frigerio nel libro Caravaggio. La luce e le tenebre (Àncora Editrice). Tema che l’autore affronta anche in incontri in parrocchie e centri culturali. Per contatti e informazioni su luoghi e date: tel. 349.8526032.