Nella Messa della mattina di Natale, presieduta presso la Casa circondariale di San Vittore, presente il sindaco e molti detenuti, l’Arcivescovo ha richiamato la speranza che il carcere possa diventare un luogo dove praticare l’arte del buon vicinato. Visitati anche alcuni reparti
di Annamaria
BRACCINI
Un canto a Gesù, luce del mondo, presenza amica che visita ogni luogo della terra, rivelazione della verità più profonda dell’uomo, figlio di Dio amato e capace di amare. Luce che suscita, in ogni storia, una voglia di riscatto, una fiducia rinnovata. Luce che avvolge la vita, quella buona e quella, secondo il giudizio umano, cattiva.
Sceglie il carcere di San Vittore, l’Arcivescovo, per iniziare il giorno di Natale con la Celebrazione eucaristica da lui presieduta nel grande e storico esagono centrale della Casa di reclusione, dove è allestito un piccolo altare e il presepe. Tanti i detenuti che si affacciano dall’interno dei Raggi, mentre alcuni sono, per l’occasione, mescolati, come normali fedeli, tra gli agenti di Polizia penitenziaria, i volontari, le religiose, gli operatori. Insomma, tutti coloro che, in questo carcere – 940 i reclusi, un centinaio le donne, con il 70% di stranieri per la quasi totalità in attesa di giudizio –, a diverso titolo, lavorano ogni giorno.
A nome di tutti dice il suo grazie il cappellano don Marco Recalcati che concelebra il Rito accanto al vicario episcopale monsignor Luca Bressan, al parroco della parrocchia di San Vittore, don Gabriele Ferrari e ad altri presbiteri. Non manca il Diacono permanente, Maurizio Bianchi, che opera da tempo nella struttura. In prima fila siedono il neo direttore del penitenziario, Giacinto Siciliano – arrivato da 15 soli giorni, dopo aver guidato il carcere di Opera –, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna De Rosa, il sindaco Giuseppe Sala e la vicesindaco, Anna Scavuzzo. Il Coro Shekinah (bravissimo) anima con suggestione la Liturgia.
All’ingresso, monsignor Delpini stringe le mani di chi si sporge da dietro le sbarre, dona la sua immaginetta, mentre, poco dopo, all’avvio della Messa, un’Ausiliaria diocesana offre per un bacio, ad alcuni dei presenti, la piccola statuina del Bambino Gesù che viene, poi, posta nel presepe. Don Recalcati ricorda la benedizione portata in tutte le celle con la fiammella che, volutamente, ora è sull’altare, simbolo di quella luce a cui l’Arcivescovo eleva il suo cantico.
L’omelia dell’Arcivescovo
«Oggi è la festa della luce. Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce. Festa della luce perché il Verbo si è fatto carne. Lui è la luce del mondo, per lui il mondo è stato fatto, lui è venuto nel mondo per rivelare che il mondo è fatto di luce, che ogni storia è avvolta di luce. Ciascuno di noi può dire: “Tu che cammini in un tratto di buio che può essere la tua cella, la tua solitudine, la tua sofferenza, hai ricevuto il dono della grande luce”», dice, infatti, Delpini.
Una luce che visita il popolo degli “invisibili” «quelli che sono immersi nelle tenebre, il popolo dei dimenticati, che sono segregati e separati dagli affetti più cari e dalle attività più ordinarie».
Splendore che rende chiaro, come in un’alba, l’orizzonte dell’esistenza, permettendo di rincominciare e che «si rivela, con la stessa forza liberatrice, dentro e fuori dal carcere».
Bellezza che illumina, ma che «non è una luminaria esteriore, semmai è una specie di carezza dell’anima capace di entrare in quella camera segreta dove abita la verità più profonda e misteriosa di ciascuno».
La dove esitiamo ̶ suggerisce l’Arcivescovo ̶ ad entrare per il timore di scoprire che «la nostra verità è brutta, che ci sono buone ragioni per vergognarci della nostra vita e che, ad essere sinceri, non meritiamo di essere stimati e amati».
Mentre, al contrario, nessuno ha il diritto di disprezzare se stesso perché ognuno è figlio del Dio che ha stima di noi. Per questo «la presenza di Cristo non è solo un sentimento, per quanto profondo ed emozionante, ma è splendore che avvolge la storia dell’umanità» e quella personale che, magari, diviene «una ricostruzione per dimostrare che abbiamo avuto ragione e che, se abbiamo fatto qualche cosa di male, questo è dovuto alle circostanze in cui ci si trovati e alla cattiveria altrui». O che, invece, è storia «segnata dal peso di ciò che è stato fatto, dal rammarico per quello che non siamo riusciti a fare, dal senso di colpa per quello che è andato male».
Appunto quando la vicenda della vita «pesa addosso come una condanna, un rimorso, un destino ostile».
Le parole fendono un silenzio di dolore che pare palpabile, quando Delpini aggiunge: «La luce di Gesù non fa diventare giuste le cose sbagliate, ma semina in ogni storia una vocazione alla santità, una chiamata all’audacia di ricominciare, una gioia di liberazione per lasciarci abbracciare dalla misericordia che perdona e si fa perdonare, che ricostruisce ciò che è stato distrutto».
Da qui una sorta di Inno finale, «canto alla luce, la presenza amica che visita ogni luogo della terra e vi stabilisce una presenza permanente, fedele con la fierezza di chiamare Dio “Abbà, Padre”, con un’amicizia che nulla può spezzare».
Infine, ancora qualche breve augurio viene dal direttore Siciliano: «Per noi la presenza dell’Arcivescovo è un momento molto importante. Qui ho visto tanto dolore e disagio, ma anche voglia di fare, volontariato, operatori di grande professionalità. Mi piacerebbe che il carcere fosse un luogo di ascolto, di confronto e di crescita, nel rispetto delle differenze e di ciascuno. L’augurio più grande è che si possa lavorare insieme perché questa Casa diventi, appunto, un luogo di luce nel centro di Milano».
Gli fa eco la presidente De Rosa che cita il messaggio inviato ai detenuti dall’Arcivescovo ̶ appena consegnato a tutti ̶ , notando che «in questo momento si sono aperte e le porte dei Raggi (in senso concreto) e questo è un segno»
«Nel Discorso di Sant’Ambrogio ho chiesto di coltivare un’arte del “buon vicinato”», conclude monsignor Delpini prima della visita ad alcuni Reparti tra cui il “Clinico”. «Penso che qui si metta a dura prova lo stare vicino con persone che non si sono scelte e con le quali si divide uno spazio ristretto, ma vi chiedo che facciate di questo Carcere un luogo dove si pratichi l’arte del buon vicinato. La benedizione del Signore non sta chiusa dentro i muri e le sbarre, tutti siamo benedetti da Dio».