Arianna Fioretto, milanese, 24 anni, si è laureata in Filosofia alla Statale ed è partita con Caritas ambrosiana per il Servizio civile nel Paese dell’Est, dove ha collaborato con «Diaconia», un’associazione umanitaria ortodossa che opera nella capitale Chisinau. Ha lavorato in due centri assistenziali, uno per ragazze madri con i loro figli, l’altro per ragazze adolescenti in situazioni di vulnerabilità
di Arianna
FIORETTO
«Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare, ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta» (T.S. Eliot).
Con questa frase mi hanno accolto alcune care amiche al mio ritorno. Penso riassuma bene la mia esperienza di quest’anno in Moldova. Andare via, immergermi in una realtà così diversa è stata un’occasione di riconquista di quello che avevo lasciato, la mia vita in Italia. Penso che la vita si un po’ come un quadro. Se sei troppo vicino, con lo sguardo fisso su un particolare, non riesci a vederlo bene, devi fare un passo indietro, allontanarti un po’ per ammirarlo e apprezzarlo in tutta la sua complessità. Ci capita a volte nella vita di essere concentrati solo su un particolare, ripiegati su una fatica o una delusione, con lo sguardo fisso solo su ciò che non è andato come volevamo, mentre la vita si staglia davanti a noi in tutta la sua vastità, più grande di ogni nostra riduzione.
Andando via mi sono imbattuta in una realtà che ha spalancato di nuovo il mio sguardo. Nella sua complessità, problematicità, a volte anche nei suoi drammi, si è imposta prepotentemente, scardinando la mia chiusura. L’esperienza vissuta ha spazzato via l’ingratitudine e la recriminazione che offuscava il mio sguardo. L’intensità delle esperienze vissute, le persone incontrate si sono fatte largo e hanno preso posto nei miei occhi ormai dischiusi. Ho riguardato alla mia vita in Italia, alla mia famiglia, ai miei amici, al cammino di fede che sto percorrendo ed è stato come se li vedessi per la prima volta. Questi occhi nuovi si sono ricolmati di gratitudine per quello che avevo lasciato, non solo per le cose belle, ma anche per le fatiche annesse e connesse.
Ora che sono tornata, mi trovo vogliosa e curiosa di ricominciare la mia avventura quotidiana. Non ho paura di perdere tutto quello che ho guadagnato in Moldova, perché un’esperienza così ti plasma e conforma, cambiandoti irreversibilmente. Così, nella vita di tutti i giorni, nelle cose da fare e nei rapporti che mi saranno dati, proponendo me stessa sono certa che porterò anche questa esperienza, diventata ormai parte di me.
La Moldova è il Paese più povero d’Europa, meglio conosciuto con il nome russo «Moldavia». La Nazione vive nell’isolamento, la sua è una storia di sottomissione al regime sovietico che ha lasciato ferite difficilmente rimarginabili. Quello che mi ha colpito tuttavia, non è stata solo la povertà economica di questo Paese, ma la povertà di speranza della sua gente. Un Paese in cui ingiustizia e corruzione soffocano ogni barlume di miglioramento; un Paese che difficilmente offre opportunità ai giovani, costretti ad andarsene per garantirsi un futuro migliore; un Paese di dolorose separazioni, in cui milioni di madri partono per lavorare all’estero come badanti e mantenere con i loro stipendi la famiglia.
In mezzo alla stanchezza e rassegnazione che coglievo nei tanti sguardi incrociati, ciò che mi ha conquistato sono stati gli occhi vivaci di alcune persone incontrate, in particolare dei colleghi dell’associazione umanitaria in cui ho lavorato. Persone la cui energia e voglia di fare deriva dalla consapevolezza che possiamo essere noi, nel nostro piccolo, il primo motore del cambiamento. Spero di essere anch’io portatrice anche solo di una piccola parte della speranza che mi hanno testimoniato.