Grandissima partecipazione di fedeli alla Via Crucis per la Zona pastorale V. «Seguiamo quanto il Papa ci propone con la sua testimonianza diretta, la sua cultura di popolo e l’insegnamento», ha detto l’Arcivescovo

di Annamaria BRACCINI

«Le ferite che il peccato sul suo corpo ha provocato siano impresse, o Madre, in me».

Le parole del canto doloroso dello “Stabat Mater”, intonate dalla folla di fedeli che, per le vie di Monza, segue la Croce di san Carlo con la reliquia del Santo chiodo sono la sintesi più alta e, insieme, la ragione profonda del gesto che si sta compiendo.

In migliaia si affollano all’interno e all’esterno della chiesa di San Biagio, da cui parte la Via Crucis guidata dall’Arcivescovo per la Zona pastorale V. Moltissimi i preti – accanto all’Arcivescovo camminano il vicario episcopale di Zona, monsignor Patrizio Garascia e l’arciprete di Monza, monsignor Silvano Provasi, ma c’è anche il vescovo emerito di Mantova, monsignor Roberto Busti, residente in Zona – i religiosi e religiose. Presenti le autorità militari e civili con il sindaco, Roberto Scanagatti. A turno portano la Croce carolina i sacerdoti di Monza. I ragazzi che hanno partecipato alla Gmg di Cracovia, e che stanno compiendo un itinerario di discernimento, animano la liturgia della Processione che si snoda attraverso alcuni luoghi simbolici e nevralgici della città. A segnare ognuna delle 4 Stazioni vi sono altrettante opere moderne realizzate con una grande croce di semplice legno, un lenzuolo bianco macchiato e fili di ferro aggrovigliati, dai giovani del Liceo Artistico “Preziosissimo Sangue”.

Si inizia uscendo da “San Biagio” e fermandosi ai lati della vicina Prefettura dove si fa memoria di “Gesù caricato della Croce”; si prosegue sostando alla chiesa di santa Maria degli Angeli presso la Clinica “Zucchi”. Una leggera pioggia fa passare velocemente i pellegrini davanti alla terza Stazione, posta davanti al Municipio, e alla quarta, dove, invece che pregare sul sagrato, si entra subito in Duomo.

L’omelia del Cardinale

«Per prendere coscienza di questa opera che è la più decisiva e gigantesca che si sia compiuta nella storia abbiamo seguito la Croce, perché il Figlio di Dio si è fatto uno come noi e, unico che poteva non morire, ha scelto di lasciarsi consegnare sulla Croce prendendo su di sé il nostro peccato e liberandoci, così, dal terrore della morte. Questa è la ragione profonda del nostro cammino dietro la Croce di san Carlo e con la Santa reliquia del chiodo che vi è familiare per la presenza del chiodo nella Corona ferrea conservata in questo splendido Duomo».

Il richiamo è alla «responsabilità grandissima di stare nel mistero impressionante che dovrebbe essere il centro di tutta la nostra esistenza», la Passione, morte e Risurrezione del Signore. «Nessun uomo si può salvare da sé, ma ecco che il Salvatore, Colui che ci libera dal peccato, ci viene incontro. Questo è il mistero del Triduo Pasquale che la dolce pratica della via della Croce sottolinea».

Emblematicamente posta in piena luce sull’altare maggiore del Duomo, sopra gli alti gradini e sotto la meravigliosa volta affrescata, la Croce pare cercare, in effetti, gli occhi  di ciascuno, come osserva l’Arcivescovo: «Lui ora ci sta guardando per la potenza del Suo Spirito che è sopra di noi, tra di noi e, per questo in noi». Uno sguardo al quale si accompagna – suggerisce ancora il Cardinale – la Sua voce che è «come se ci sussurrasse “dammi il cuore”»,

«Ci distraiamo con un nonnulla, trasformiamo l’unico e irripetibile spettacolo della Croce in una rappresentazione sacra, ma se non diamo il cuore a questo sussurro del Crocifisso, perdiamo, in ultima analisi, la vita stessa». Appunto in quanto perdiamo «quell’anticipo di eternità nella storia che è la Croce e la Risurrezione di Gesù».

Chiaro il riferimento al peccato che impedisce di vivere fino in fondo e con fedeltà l’appartenenza a Cristo. «Ad esso ci siamo abituati, in questa cultura contemporanea, con una straordinaria facilità: è come se i comandamenti non incidessero più, mentre sono stati uno dei pilastri della costruzione europea e dell’Occidente». Infatti, anche come cristiani trasformiamo «tranquillamente il peccato in un errore», nota Scola, non vedendo cosa ha significato per il Cristo portare i nostri peccati.

«Che distanza abissale introduce il peccato di noi uomini tra il Padre e il Figlio crocifisso e che lo Spirito Santo tiene insieme, Spirito che Lui dona prima di lasciare la vita terrena e disporsi al potente miracolo della Sua e della nostra Risurrezione. Senza questa consapevolezza, come è possibile provare dolore per i nostri peccati? In cosa trasformiamo il dono straordinario della fede, radice di bellezza, di verità e di giustizia?. Realmente quaresima vuole dire penitenza, che significa scendere nella profondità di noi stessi».

Occorre, allora, quel cambiamento di sguardo, che lo sguardo del Signore produce in noi: «così capiamo bene Gesù, l’uomo dei dolori che si incarna in ogni sofferente, in ogni espressione dolorosissima della mancanza di una cultura dell’incontro, in tutte le forme di povertà, emarginazione, in coloro che sono sotto l’ombra della morte»

Così Cristo diventa una «lettura» di ciascuna forma di dolore e violenza; diviene quel qualcuno «che, per quanto un uomo possa sprofondare nell’abisso della colpa, troverà sempre accanto a sé e che, mettendoci la mano stato il mento, ci trascinerà nella casa delle porte aperte che è la Trinità».

Da qui la conclusione: «Abbiamo seguito la Croce nelle strade centrali di questa nobile città, perché siamo donne e uomini interi, carichi di fede, di speranza e carità; fedeli autentici e cittadini in senso profondo perché abbiamo una cultura civica che viene da lontano. Seguire la Croce è anche assumere un impegno sociale e civile, con la preoccupazione di edificare una civiltà autentica in questa fase di transizione che soprattutto l’Europa affaticata sta vivendo, basti pensare al gelo demografico del nostro Paese. Noi vogliamo proporre a tutti i nostri cittadini la bellezza del seguire Gesù, la Madonna, i Santi e i nostri cari già passati all’altra riva che hanno edificato la Monza di oggi. Vogliamo costruire un futuro per i giovani, non lasciarli nella condizione attuale per cui sono la prima generazione che ha meno possibilità rispetto a quelle precedenti. Questa è una responsabilità personale, ecclesiale e civile. I passi cha abbiamo mosso in questa importante zona della nostra grande Diocesi, li ritroviamo nel sorriso e nella familiarità  di comunicazione del santo Padre che, grazie a voi, abbiamo ospitato pochi giorni fa. All’energia della sua fede, alla forza del suo amore per noi, abbiamo risposto mostrando che gli vogliamo bene. Ma ciò rimarrebbe solo un’intenzione se non convertisse, in questa Pasqua, il nostro cuore, se non seguissimo quanto il Papa ci propone con la sua testimonianza diretta, la sua cultura di popolo e l’insegnamento. Questo è l’impegno che ci assumiamo». 

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