Lo storico direttore della "Gazzetta dello Sport" è morto ieri a seguito dell'emorragia cerebrale che l'aveva colpito giovedì scorso. Domani i funerali in Sant'Ambrogio
Mauro COLOMBO
Redazione Diocesi
Lo sport ha perso il suo cantore più romantico e appassionato. Candido Cannavò, storico direttore della Gazzetta dello Sport, èmorto ieri mattina nella clinica “Santa Rita” di Milano, a seguito dell’emorragia cerebrale che a più riprese l’aveva colpito giovedì scorso.
Cannavò, 78 anni, si era sentito male proprio in via Solferino, nella sede della sua Gazzetta e del Corriere della sera. Era in sala mensa, circondato da tanti giornalisti, molti dei quali cresciuti alla sua scuola: con loro era solito condividere un pranzo veloce tra un articolo e l’altro. Aveva appena terminato il pezzo per la sua rubrica “Fatemi capire” con la quale, pur non più dal posto di comando, continuava a dettare la linea della “rosea”. Colto da malore, è stato soccorso dai colleghi e dal figlio Alessandro, caporedattore del Corriere, al quale, ancora lucido, ha confidato: «Ce la farò, vedrai». Poi il progressivo peggioramento, il trasferimento in terapia intensiva, lo scivolamento nel coma e una prognosi “riservatissima” che non lasciava speranze.
Oggi, nella Sala Montanelli della sede Rcs di via Solferino, dalle 11 alle 21 sarà allestita la camera ardente, che rimarrà aperta anche domani dalle 9 alle 14. I funerali domani, alle 14.45, nella basilica di Sant’Ambrogio, celebrati dall’amico don Gino Rigoldi. Lo sport ha perso il suo cantore più romantico e appassionato. Candido Cannavò, storico direttore della Gazzetta dello Sport, èmorto ieri mattina nella clinica “Santa Rita” di Milano, a seguito dell’emorragia cerebrale che a più riprese l’aveva colpito giovedì scorso.Cannavò, 78 anni, si era sentito male proprio in via Solferino, nella sede della sua Gazzetta e del Corriere della sera. Era in sala mensa, circondato da tanti giornalisti, molti dei quali cresciuti alla sua scuola: con loro era solito condividere un pranzo veloce tra un articolo e l’altro. Aveva appena terminato il pezzo per la sua rubrica “Fatemi capire” con la quale, pur non più dal posto di comando, continuava a dettare la linea della “rosea”. Colto da malore, è stato soccorso dai colleghi e dal figlio Alessandro, caporedattore del Corriere, al quale, ancora lucido, ha confidato: «Ce la farò, vedrai». Poi il progressivo peggioramento, il trasferimento in terapia intensiva, lo scivolamento nel coma e una prognosi “riservatissima” che non lasciava speranze.Oggi, nella Sala Montanelli della sede Rcs di via Solferino, dalle 11 alle 21 sarà allestita la camera ardente, che rimarrà aperta anche domani dalle 9 alle 14. I funerali domani, alle 14.45, nella basilica di Sant’Ambrogio, celebrati dall’amico don Gino Rigoldi. La carriera Originario di Catania, Cannavò cominciò la carriera giornalistica come cronista de La Sicilia, affrontando nelle sue inchieste anche temi estremamente scomodi. Parallelamente, grazie alla sua innata passione per lo sport (in gioventù aveva praticato l’atletica), nel 1955 iniziò a inviare corrispondenze per la Gazzetta, che in seguito lo mandò al seguito dei principali avvenimenti agonistici mondiali.Chiamato a Milano da Gino Palumbo come vicedirettore, gli subentrò poco dopo che la Gazzetta aveva raggiunto il suo record assoluto: quasi un milione e 700 mila copie “tirate” all’indomani della vittoria mundial dell’Italia di Bearzot nel 1982. Per nulla intimorito dall’impegnativo confronto, da direttore impose ben presto il suo stile, teso a indagare sul “dietro le quinte” di un fatto agonistico e a scoprire la persona “nascosta” dentro il campione. Nella sua visione “olimpica” dello sport, non c’è stata disciplina di cui Cannavò non abbia scritto, con rigore documentario e con passione umana che lo portava anche alla contrapposizione talvolta polemica, ma sempre rispettosa. E grazie a lui la Gazzetta è diventata sempre più popolare.Lasciata dopo 19 anni la direzione, tornò ad allargare il suo orizzonte professionale a quelle tematiche sociali già toccate da giovane nella sua terra. Dopo il racconto dell’esperienza in Gazzetta in Una vita in rosa (2003), solo temi forti, scomodi e provocatori, come il carcere (Libertà dietro le sbarre, 2004) e l’handicap (E li chiamano disabili, 2005). Da ultimo, nel 2008, Pretacci, ovvero Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede: preti che hanno fatto della fede la chiave per entrare nelle piaghe del terzo millennio, cercando di lenirle. Il mondo dello sport ambrosiano lo conosceva bene, non solo per le numerose serate tenute in parrocchie e oratori, nelle quali portava personaggi e tematiche al centro dei suoi libri, ma anche per le assidue partecipazioni al Natale degli Sportivi con l’Arcivescovo, dove non mancava mai la sua testimonianza appassionata e ricca di aneddoti. – I suoi “pretacci” (da Il Segno, giugno 2008) –