La responsabile dell’Area “Maltrattamento Donne” di Caritas ambrosiana commenta gli ultimi dati raccolti dall’Unità di strada Avenida, chiarisce l’obiettivo del servizio e denuncia: «Ci sono prostitute perché ci sono i clienti»
di Claudio
URBANO
Forse più che in altre forme di sfruttamento, nella prostituzione risalta un aspetto particolarmente odioso: immediatamente riconoscibili sono le vittime, le donne che la sera tardi vediamo agli incroci della circonvallazione o lungo i vialoni che portano fuori città. Restano nell’ombra, invece, i loro sfruttatori e i clienti, “motori” di un sistema che tiene insieme alcune delle zone più povere dell’Africa o dell’Est europeo con le nostre città.
Per questo sono preziosi i dati raccolti nell’ultimo anno da Avenida, l’Unità di strada di Caritas ambrosiana, diffusi in occasione della recente Giornata mondiale contro la tratta. Ormai consolidata è la presenza sulle strade delle donne dell’Europa orientale, romene e albanesi soprattutto, mentre cala quella delle nigeriane, che però nel 2019 sono state le uniche ad accettare l’accoglienza in una comunità protetta offerta da Caritas. «L’ostacolo più difficile per noi è riscuotere la loro fiducia – spiega suor Claudia Biondi, responsabile dell’Area “Maltrattamento Donne” di Caritas ambrosiana -. Per queste donne significa fidarsi dei bianchi, temere per la propria vita rompendo gli impegni presi nei riti voodoo in cui sono state coinvolte prima di partire, ma anche mettere a rischio la propria famiglia d’origine, visti i casi di punizioni esemplari per i familiari di chi si è emancipata dalla rete dei propri sfruttatori».
Diversa è invece la condizione delle donne dell’Est, soprattutto per la maggiore facilità di spostamento tra l’Italia e il Paese d’origine. «È differente anche il rapporto con chi le sfrutta – chiarisce Biondi -, che in genere garantisce loro una sorta di stipendio mensile, con cui le donne non solo sopravvivono, ma aiutano le proprie famiglie. Proprio questo minimo ritorno economico, insieme al pensiero di poter comunque scappare tornando nel proprio Paese, le rende meno interessate a chiedere aiuto». «D’altra parte – riflette suor Claudia -, se dovessimo pensare che il nostro obiettivo sia esclusivamente far uscire dalla vita della strada avremmo dovuto “chiudere” fin dall’inizio. Per noi è importante lasciare la porta aperta a chiunque, fare sapere che ci siamo. Ci interessa dare alle donne la possibilità di riconoscersi nella propria umanità. Se la relazione non porta all’uscita dalla strada, rimane per lo meno il fatto di essersi incontrate e di essersi conosciute allo stesso livello».
La religiosa non tace sulla responsabilità di chi si prostituisce, ma precisa: «Tutte le donne che sono in strada sono povere e hanno un legame di sfruttamento coi loro compatrioti che promettono benessere. Se si può parlare di scelta per la prostituzione, questa è certamente molto relativa». E rilancia piuttosto un’accusa a chi muove questo mercato: «Non dobbiamo mai dimenticarci che, se ci sono le donne in strada, è perché ci sono i clienti, che hanno una responsabilità forte. E c’è anche un retaggio culturale per cui la riprovazione verso chi si prostituisce non è la stessa che c’è verso chi va con le prostitute. Non è fuori luogo quindi richiamare la responsabilità di chi sceglie di sfruttare il corpo di un’altra persona, che spesso non ha molte opportunità per dire di no».