Parla una psicoterapeuta: il provvedimento che impedisce di bere agli under 16 rilancia il bisogno di educare
Pino NARDI
Redazione
Ragazzini attaccati alla bottiglia. Una realtà sempre più diffusa, che con i recenti divieti a Milano dovrebbe essere dimenticata. Eppure cosa si nasconde dietro questo bisogno di bere alcol, una forma di sballo a buon mercato? Ne parliamo con Stefania Perduca, psicoterapeuta e docente di Scienze della comunicazione all’Università San Raffaele di Milano.
L’alcol e i minori: cosa li spinge a bere?
Se lo prendiamo come un comportamento sporadico può essere legato al gruppo, che riporta al discorso della tribù, a una forte appartenenza a una comunità. Questo pensando più a una fascia che ancora si ferma alla normalità che non sconfina nel disagio.
In caso contrario potrebbe essere invece un segnale di disagio…
Rispetto ai disagi dei ragazzi, forme di dipendenza oggi ce ne sono tante: dall’alcol a tutte le varie nuove tecnologie. Però il bere – e questo lo dicono anche i ragazzi – rispetto alla droga leggera, fino a poco tempo fa era lecito e questo aveva un impatto sia su di loro sia sui genitori. Era considerato meno sbagliato rispetto a una canna. Certo, nel caso si bevano tante birre a livello biologico il danno c’è lo stesso. Tuttavia, il fatto che mancasse questa connotazione di illecito lo rendeva uno dei comportamenti anche più facili da attuare nella trasgressione e percepito come meno pericoloso.
Quindi il divieto è un segnale anche per loro…
Per me sì. Non l’ho trovato un provvedimento tanto negativo. Sappiamo tutti dei limiti dei divieti o della necessità della prevenzione, tuttavia è un bel segnale. In Europa c’è già, non ci siamo inventati niente.
Il fatto che siano comunque minori di 16 anni vuol dire che l’età si sta abbassando di molto: come possiamo interpretarlo? Si cerca un rifugio o comunque è solo imitazione e condizionamento del gruppo?
Sì, è una ricerca di sicurezza oppure una fuga dalla realtà. Tantissimi ragazzi nelle scuole superiori ci riportano molte problematiche nelle relazioni in famiglia, ma anche la sofferenza per la difficoltà ad avere relazioni vere con gli amici. Il tema dell’amicizia è molto frequente, ma l’idea che si possa avere quella che noi chiamiamo la capacità di affrontare i problemi non c’è sempre. Lavoro molto nelle scuole: se ai ragazzi fornisci indicazioni poi ce la fanno. Non è che non sono capaci, però c’è come un blocco iniziale. Inoltre, c’è il discorso della prestazione, del fatto che bisogna sempre arrivare in tutto, se a scuola non si raggiungono gli obiettivi ci si sente falliti. In questo caso l’alcol può avere una funzione consolatoria. Ma anche di poter provare emozioni forti, di vincere la noia, il vuoto e la tristezza.
Allora come si può fare prevenzione, al di là del divieto? Per esempio qual è il ruolo del gruppo di amici?
È molto utile l’educazione a relazioni più sane e insegnare ai ragazzi come si può stare con gli altri. Inoltre, tante scuole stanno attivando gruppi di formazione e di prevenzione sull’uso di sostanze oppure sulla relazione con il cibo. Quindi c’è già una possibilità in questo campo, che secondo me va molto bene: una prevenzione che sia specifica e mirata, partendo da come noi stiamo in relazione con gli altri e quindi anche con le sostanze come l’alcool, la droga, il cibo e anche internet.
E la comunità cristiana?
Ai ragazzi diamo un’altra possibilità continuando a fornire esperienze formative forti, che non hanno paura di fare proposte diverse (se si va in campeggio si spegne il telefonino e non c’è il bar…). Non è il divieto per il divieto, ma è il dire prova a stare senza per vedere dove ti porta, per aprirli a nuove esperienze. Prova a privarti di questa cosa che è facile, è immediata, ti dà subito una gratificazione per un’altra che te la dà posticipata e in più da conquistare, ma che forse ti insegna qualcosa su di te.
Veniamo alla famiglia, che a questo punto diventa centrale…
I ragazzi non lo dicono in casa se bevono. Quindi la famiglia continui a lavorare a una relazione sana con i figli. E per non spaventare diciamo che ci possono essere anche delle fasi: non è che se uno beve, e anche tanto, è per forza dipendente dall’alcol. Ci sono le fasi adolescenziali dove il comportamento trasgressivo ha un inizio e una fine. Non si deve pensare tutto come patologico. Le famiglie potrebbero continuare a fare quello che fanno, provando ad osservare prima di drammatizzare (che significato ha l’alcool nella loro vita, se si ripete oppure no, in che contesto è). E poi eventualmente non aver paura di chiedere aiuto agli specialisti, perché sguardi diversi possono aiutare: oggi nelle scuole ci sono sempre gli psicologi che lavorano anche con i genitori e sono disponibili spesso anche nelle parrocchie. Ragazzini attaccati alla bottiglia. Una realtà sempre più diffusa, che con i recenti divieti a Milano dovrebbe essere dimenticata. Eppure cosa si nasconde dietro questo bisogno di bere alcol, una forma di sballo a buon mercato? Ne parliamo con Stefania Perduca, psicoterapeuta e docente di Scienze della comunicazione all’Università San Raffaele di Milano.L’alcol e i minori: cosa li spinge a bere?Se lo prendiamo come un comportamento sporadico può essere legato al gruppo, che riporta al discorso della tribù, a una forte appartenenza a una comunità. Questo pensando più a una fascia che ancora si ferma alla normalità che non sconfina nel disagio.In caso contrario potrebbe essere invece un segnale di disagio…Rispetto ai disagi dei ragazzi, forme di dipendenza oggi ce ne sono tante: dall’alcol a tutte le varie nuove tecnologie. Però il bere – e questo lo dicono anche i ragazzi – rispetto alla droga leggera, fino a poco tempo fa era lecito e questo aveva un impatto sia su di loro sia sui genitori. Era considerato meno sbagliato rispetto a una canna. Certo, nel caso si bevano tante birre a livello biologico il danno c’è lo stesso. Tuttavia, il fatto che mancasse questa connotazione di illecito lo rendeva uno dei comportamenti anche più facili da attuare nella trasgressione e percepito come meno pericoloso.Quindi il divieto è un segnale anche per loro…Per me sì. Non l’ho trovato un provvedimento tanto negativo. Sappiamo tutti dei limiti dei divieti o della necessità della prevenzione, tuttavia è un bel segnale. In Europa c’è già, non ci siamo inventati niente.Il fatto che siano comunque minori di 16 anni vuol dire che l’età si sta abbassando di molto: come possiamo interpretarlo? Si cerca un rifugio o comunque è solo imitazione e condizionamento del gruppo?Sì, è una ricerca di sicurezza oppure una fuga dalla realtà. Tantissimi ragazzi nelle scuole superiori ci riportano molte problematiche nelle relazioni in famiglia, ma anche la sofferenza per la difficoltà ad avere relazioni vere con gli amici. Il tema dell’amicizia è molto frequente, ma l’idea che si possa avere quella che noi chiamiamo la capacità di affrontare i problemi non c’è sempre. Lavoro molto nelle scuole: se ai ragazzi fornisci indicazioni poi ce la fanno. Non è che non sono capaci, però c’è come un blocco iniziale. Inoltre, c’è il discorso della prestazione, del fatto che bisogna sempre arrivare in tutto, se a scuola non si raggiungono gli obiettivi ci si sente falliti. In questo caso l’alcol può avere una funzione consolatoria. Ma anche di poter provare emozioni forti, di vincere la noia, il vuoto e la tristezza.Allora come si può fare prevenzione, al di là del divieto? Per esempio qual è il ruolo del gruppo di amici?È molto utile l’educazione a relazioni più sane e insegnare ai ragazzi come si può stare con gli altri. Inoltre, tante scuole stanno attivando gruppi di formazione e di prevenzione sull’uso di sostanze oppure sulla relazione con il cibo. Quindi c’è già una possibilità in questo campo, che secondo me va molto bene: una prevenzione che sia specifica e mirata, partendo da come noi stiamo in relazione con gli altri e quindi anche con le sostanze come l’alcool, la droga, il cibo e anche internet.E la comunità cristiana?Ai ragazzi diamo un’altra possibilità continuando a fornire esperienze formative forti, che non hanno paura di fare proposte diverse (se si va in campeggio si spegne il telefonino e non c’è il bar…). Non è il divieto per il divieto, ma è il dire prova a stare senza per vedere dove ti porta, per aprirli a nuove esperienze. Prova a privarti di questa cosa che è facile, è immediata, ti dà subito una gratificazione per un’altra che te la dà posticipata e in più da conquistare, ma che forse ti insegna qualcosa su di te.Veniamo alla famiglia, che a questo punto diventa centrale…I ragazzi non lo dicono in casa se bevono. Quindi la famiglia continui a lavorare a una relazione sana con i figli. E per non spaventare diciamo che ci possono essere anche delle fasi: non è che se uno beve, e anche tanto, è per forza dipendente dall’alcol. Ci sono le fasi adolescenziali dove il comportamento trasgressivo ha un inizio e una fine. Non si deve pensare tutto come patologico. Le famiglie potrebbero continuare a fare quello che fanno, provando ad osservare prima di drammatizzare (che significato ha l’alcool nella loro vita, se si ripete oppure no, in che contesto è). E poi eventualmente non aver paura di chiedere aiuto agli specialisti, perché sguardi diversi possono aiutare: oggi nelle scuole ci sono sempre gli psicologi che lavorano anche con i genitori e sono disponibili spesso anche nelle parrocchie. – – «Pensiamo anche a prevenire» (https://www.chiesadimilano.it:81/or4/or?uid=ADMIesy.main.index&oid=1853465)