Rinnovata la positiva esperienza promossa dalla Casa della Carità: a Pomaia oltre 120 ragazzi residenti nei campi di via Triboniano e via Idro. Don Mapelli: «Abbiamo ricevuto accoglienza, non problemi»
Silvio MENGOTTO
Redazione
Dal 25 giugno all’1 luglio la Casa della Carità di Milano ha portato al mare di Pomaia più di 120 ragazzi rom residenti nei campi di via Triboniano e via Idro. Due turni divisi tra ragazzi delle elementari e della scuola media. Una vacanza seguita da don Massimo Mapelli con un folto gruppo di volontari della Casa.
Don Mapelli, la vacanza al mare per i ragazzi rom si consolida e si apre anche a quelli di campi diversi. È una grossa novità…
Quest’anno abbiamo privilegiato i ragazzi di due campi, via Triboniano e via Idro, dove come Casa della Carità abbiamo un presidio sociale. A Triboniano ci sono ragazzi rumeni e bosniaci, in via Idro rom italiani. Si è deciso di mischiare un po’ le carte dividendoli per età. Sono stati due gruppi di 60 persone ciascuno, con un notevole impiego di operatori della Casa.
Cosa è emerso di significativo?
Quando questi ragazzi sono fuori dal sistema “ghetto”, intendo la vita al campo, che crea il vero problema, si può davvero lavorare bene con loro. Dal rispetto del luogo dove eravamo ospiti, al rispetto delle persone incontrate. I ragazzi hanno realizzato uno spettacolo offerto alla popolazione di Pomaia, che ha avuto un grande successo e il coinvolgimento dei coetanei del luogo. Spiegando alla gente chi erano questi ragazzi rom abbiamo ricevuto un’accoglienza, non problemi. È emersa anche la capacità di stare insieme fra due gruppi che, fondamentalmente, non si conoscono e ben poco hanno in comune perché vengono da tradizioni diverse.
E l’esperienza con i più grandi?
È stata diversa. Se parliamo di ragazzi rom delle medie significa tener conto di tante cose: alcuni di loro sono vicini all’età in cui si sposano, molti a fatica terminano la terza media. Al mare abbiamo portato tutti i ragazzi che si stanno impegnando per conseguire la licenza media. È una grande fatica, sia per chi viene dalla Bosnia, sia per i rom italiani. Si è trattato di fare i conti con un gruppo di ragazzi i quali, dove vivono, possono essere anche preda della delinquenza e sfruttati come manovalanza. Portati fuori dal contesto del campo a vivere un’esperienza così, possiamo dire che in quei giorni non è successo nulla. Non solo, ma hanno dimostrato una capacità di stare insieme, divertirsi e apprezzare alcune cose. Questo ci fa capire che è possibile continuare il lavoro anche con i ragazzi più grandi sui quali sembra che le condizioni siano ormai perse: non è così perché c’è lo spazio per recuperare. Per alcuni di loro è stato anche il primo momento dove hanno avuto, gratuitamente, l’opportunità di poter stare insieme ad altri, avere cose per sé da non difendere con la forza. Questo è stato fondamentale per loro.
Qual è allora il bilancio?
Un’esperienza come questa fa ritrovare a noi la passione di poter lavorare per e insieme a loro. Con alcuni stiamo instaurando strade nuove. Qualche ragazzo che doveva vivere in comunità oggi vive con me. Avere la possibilità di tenere un contatto costante per i ragazzi significa molto e denota che in loro c’è una ricerca. Il contatto educativo 24 ore su 24, che i ragazzi hanno sperimentato, oggi lo ricercano continuamente. Molti ragazzi vengono alla Casa della Carità, gli operatori sono chiamati sempre al campo. Questo ci dice che se c’è l’investimento educativo forte sui ragazzi il lavoro è assolutamente possibile. Dal 25 giugno all’1 luglio la Casa della Carità di Milano ha portato al mare di Pomaia più di 120 ragazzi rom residenti nei campi di via Triboniano e via Idro. Due turni divisi tra ragazzi delle elementari e della scuola media. Una vacanza seguita da don Massimo Mapelli con un folto gruppo di volontari della Casa.Don Mapelli, la vacanza al mare per i ragazzi rom si consolida e si apre anche a quelli di campi diversi. È una grossa novità…Quest’anno abbiamo privilegiato i ragazzi di due campi, via Triboniano e via Idro, dove come Casa della Carità abbiamo un presidio sociale. A Triboniano ci sono ragazzi rumeni e bosniaci, in via Idro rom italiani. Si è deciso di mischiare un po’ le carte dividendoli per età. Sono stati due gruppi di 60 persone ciascuno, con un notevole impiego di operatori della Casa.Cosa è emerso di significativo?Quando questi ragazzi sono fuori dal sistema “ghetto”, intendo la vita al campo, che crea il vero problema, si può davvero lavorare bene con loro. Dal rispetto del luogo dove eravamo ospiti, al rispetto delle persone incontrate. I ragazzi hanno realizzato uno spettacolo offerto alla popolazione di Pomaia, che ha avuto un grande successo e il coinvolgimento dei coetanei del luogo. Spiegando alla gente chi erano questi ragazzi rom abbiamo ricevuto un’accoglienza, non problemi. È emersa anche la capacità di stare insieme fra due gruppi che, fondamentalmente, non si conoscono e ben poco hanno in comune perché vengono da tradizioni diverse.E l’esperienza con i più grandi?È stata diversa. Se parliamo di ragazzi rom delle medie significa tener conto di tante cose: alcuni di loro sono vicini all’età in cui si sposano, molti a fatica terminano la terza media. Al mare abbiamo portato tutti i ragazzi che si stanno impegnando per conseguire la licenza media. È una grande fatica, sia per chi viene dalla Bosnia, sia per i rom italiani. Si è trattato di fare i conti con un gruppo di ragazzi i quali, dove vivono, possono essere anche preda della delinquenza e sfruttati come manovalanza. Portati fuori dal contesto del campo a vivere un’esperienza così, possiamo dire che in quei giorni non è successo nulla. Non solo, ma hanno dimostrato una capacità di stare insieme, divertirsi e apprezzare alcune cose. Questo ci fa capire che è possibile continuare il lavoro anche con i ragazzi più grandi sui quali sembra che le condizioni siano ormai perse: non è così perché c’è lo spazio per recuperare. Per alcuni di loro è stato anche il primo momento dove hanno avuto, gratuitamente, l’opportunità di poter stare insieme ad altri, avere cose per sé da non difendere con la forza. Questo è stato fondamentale per loro.Qual è allora il bilancio?Un’esperienza come questa fa ritrovare a noi la passione di poter lavorare per e insieme a loro. Con alcuni stiamo instaurando strade nuove. Qualche ragazzo che doveva vivere in comunità oggi vive con me. Avere la possibilità di tenere un contatto costante per i ragazzi significa molto e denota che in loro c’è una ricerca. Il contatto educativo 24 ore su 24, che i ragazzi hanno sperimentato, oggi lo ricercano continuamente. Molti ragazzi vengono alla Casa della Carità, gli operatori sono chiamati sempre al campo. Questo ci dice che se c’è l’investimento educativo forte sui ragazzi il lavoro è assolutamente possibile.