La senatrice a vita protagonista della commemorazione organizzata come ogni anno dalla Comunità di Sant'Egidio e dalla Comunità ebraica per i deportati milanesi che, come lei, partirono per «ignota destinazione» nel gennaio 1944 e nei mesi successivi
di Stefania
CECCHETTI
«Siamo candele della memoria accese da te, Liliana». Con queste parole di responsabilità e gratitudine una rappresentante dei “Giovani per la pace” della Comunità di Sant’Egidio si è rivolta a Liliana Segre, ospite d’onore dell’ormai ventennale commemorazione dei deportati milanesi al binario 21, svoltasi domenica 2 febbraio Memoriale della Shoah, come sempre organizzata da Sant’Egidio e dalla Comunità ebraica. Quest’estate i “Giovani per la pace” sono stati in pellegrinaggio ad Auschwitz, un luogo da cui «non si può più tornare uguali a prima», come sottolinea un diciassettenne rom, anche lui sul palco per raccontare del suo viaggio nel campo di sterminio.
Un pellegrinaggio che è quasi un viaggio “iniziatico”, come lo definisce anche lo scrittore Paolo Rumiz, intervenuto alla commemorazione: «La visita ad Auschwitz è importante per i ragazzi, ne ho visti alcuni tornare profondamente cambiati rispetto a compagni che non ci erano stati, è un po’ come una cerimonia di ingresso nell’età adulta». Eppure questo viaggio, che ti strappa via l’innocenza dell’infanzia, rischia di essere inefficace, secondo lo scrittore triestino, «se noi adulti non abbiamo la forza e le parole giuste per rispondere ogni giorno a chi urla nelle strade le ragioni del razzismo».
Già, le strade di oggi sono ancora piene di razzismo, come dimostra il fatto che Liliana Segre, partita da quel binario per Auschwitz il 30 gennaio ’44, sopravvissuta al campo di sterminio, sia costretta oggi a girare con la scorta, a causa dell’odio che il web le vomita addosso quotidianamente, senza vergogna, senza ritegno. Un odio che preoccupa ancora di più oggi, quando molti dei testimoni stanno venendo meno, come ricorda la stessa Liliana parlando commossa di Piero Terracina e Franco Schonheit, recentemente scomparsi, «che hanno scelto di raccontare come me, senza mai parlare di odio e vendetta».
Però a guardare le centinaia di cittadini che ascoltano Liliana in un silenzio commosso possiamo concederci di sperare che la memoria possa sopravvivere. Segre inizia il suo racconto dal ricordo di quando uscì dal carcere di san Vittore per partire verso “ignota destinazione”: «Quando uscimmo da quel carcere – che nel suo squallore era pur sempre a Milano – nessuno ci guardò. Solo i detenuti degli altri raggi, incarcerati per chissà quale motivo, furono capaci di pietà, facendoci coraggio, rassicurandoci che ce l’avremmo fatta, lanciandoci una arancia, del pane, una sciarpa. Uno di loro mi disse, in milanese: “Ehi tusa me ciami Bianchi, non dimenticarti mai di me”. Furono fratelli. La pietà è un sentimento che arricchisce chi la riceve, ma soprattutto chi la prova. Da quel momento in poi incontrammo solo mostri».
Mostri che ridussero Liliana e gli altri ad amebe, stuecke, cioè “pezzi”. E il racconto di questa donna straordinaria, che a novant’anni parla lieve come una ragazzina, salta quel baratro per arrivare a quando incontrarono di nuovo uomini capaci di pietà: «Furono i soldati francesi. E non era il 27 gennaio, la storia è davvero poco studiata. In quella data, che è stata idealizzata, i soldati russi entrarono ad Auschwitz e, l’abominio che nessuno conosceva, o faceva finta di non conoscere, divenne pubblico, anche se c’è ancora qualcuno che lo nega. Ma noi non c’eravamo già più, noi eravamo già state avviate alla marcia della morte, della quale si sa pochissimo».
La fuga in cui i soldati tedeschi si imbarcarono con i prigionieri, dai campi di concentramento polacchi, che stavano per essere raggiunti dai russi, verso quelli tedeschi, si trasforma però in una marcia della vita, come ricorda Liliana: «Se si cadeva si veniva finiti dalle guardie della scorta. E allora noi siamo fortissimi, vogliamo vivere, vivere, vivere. Chi era che marciva? Persone che avevano perso tutto, la casa, la famiglia, persino il corpo, eravamo solo scheletri, eravamo come lupe affamate, dovevi trovare la forza dentro di te».
E così il racconto dell’orrore si tramuta in una lezione di vita e speranza: «Lo dico sempre ai ragazzi: siamo fortissimi, basta provare a mettere una gamba davanti all’altra».