La riflessione nel confronto con i vertici degli atenei cittadini organizzato da Fondazione Rui sul tema «Il governo della ripresa»

di Annamaria Braccini

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«Benvenuta inquietudine, benvenute domande, benvenuta università». Richiamando il suo notissimo Discorso alla Città 2019, «Benvenuto, futuro!», sono queste le sfide a cui l’Arcivescovo dà voce concludendo l’incontro, molto articolato e approfondito presso l’Aula Magna del Collegio Universitario di Merito Torrescalla, che vede presenti i rettori della Bocconi Gianmario Verona e dell’Università Cattolica Franco Anelli, il prorettore delegato del Politecnico Emilio Faroldi, Maria Pia Abbracchio (prorettrice vicaria dell’Università degli Studi) e Marco Orlandi (prorettore vicario della Bicocca). Titolo della tavola rotonda – promossa dalla Fondazione Rui e moderata da Giovanni Crostarosa Guicciardi, alumnus Rui e Bocconi, commercialista -, «L’occasione del futuro. Dialogo tra Chiesa e Accademia sul governo della ripresa». Prosegue l’Arcivescovo Mario: «Mi pare che l’inquietudine debba essere accolta  – dopo la confessione di inadeguatezza di tanti aspetti della scienza e delle domande che rimangono – come un aiuto a essere quello che siamo, persone intelligenti, che abitano in questa città. Dobbiamo, tuttavia, avere una certa cautela, perché l’inquietudine può generare angoscia. Benvenuti sono, certamente, gli interrogativi su come e cosa dobbiamo fare, ma si può porre anche la domanda del perché la vita sia amabile e desiderabile il futuro».

Soprattutto perché vi è un’impressione – anche personale dell’Arcivescovo – «che induce a pensare che la civiltà europea contemporanea intenda suicidarsi, evitando di avere figli, di sporgersi su un futuro dipinto in modo fosco e minaccioso, che non pare tanto desiderabile. Ma, come persone che pensano, possiamo domandarci perché il futuro è desiderabile», scandisce il Vescovo.

E, poi, il terzo benvenuto, anzi, benvenuta università. Il perché è chiaro: «Gli atenei milanesi sono il luogo adatto per dire a un giovane che la sua inquietudine non è destinata a generare ansia, ma a creare percorsi e che vi sono luoghi dove tali percorsi sono accompagnati e dove si trova risposta alle domande. L’università dice l’insieme, perché c’è una comunità che cerca le risposte e una cultura che aiuta a trovarle con un incontro interpersonale e interdisciplinare. Occorre, come punto irrinunciabile, ascoltare il passato – la traditio -, sottoponendo a verifica critica questo stesso passato». Da qui la è necessità della quaestio, del porre questioni e del fare ricerca. «L’università è benvenuta per preparare persone, perché offre anche una missio, le domande sul senso del tutto e di ciascuno»

Una riflessione – questa – che può essere portata avanti anche attraverso nuovi incontri con il mondo universitario, auspica monsignor Delpini, nella logica di quello svoltosi a Torrescalla. Un confronto che ha preso avvio, come ricorda Crostarosa, da un’intervista all’Arcivescovo apparsa qualche mese fa su un quotidiano nazionale e centrata sulla preoccupazione derivante dagli esiti della pandemia sul tessuto sociale ed economico con le sue diseguaglianze e ingiustizie: «Abbiamo tutelato gli asset,  ma non le persone. Mentre le pandemie sono state tradizionalmente i momenti di riequilibrio delle diseguaglianze, questa ha fatto eccezione, perché è stata fortemente asimmetrica. La presenza di una Chiesa come quella ambrosiana è importante anche per un contesto laico come è l’Università, luogo privilegiato del pensiero e ambito della formazione di giovani generazioni. La città e il Paese intero hanno tutto da guadagnare da una messa a fattor comune dei rispettivi patrimoni».

Di una nuova rivoluzione industriale con la digitalizzazione – per gli indicatori scientifici è la quarta – parla il rettore Verona, che nota come la «pandemia ci abbia trasformato in quelle persone fragili che non immaginavamo perché la globalizzazione ha fatto credere a una sorta di superuomo. Siamo in coda a una guerra e, quindi, abbiamo un’opportunità economica straordinaria e possiamo rinascere come abbiamo fatto alla fine della Seconda guerra mondiale con il piano Marshall». Ma come riprendere? «Investendo sul digitale e mettendo, al centro dei progetti di crescita, la sostenibilità con attenzione alla tematica ambientale; diminuendo il divide effettivo con l’inclusione sociale ed evitando la polarizzazione della società. Infine – per chi si occupa di economia quasi un elemento normativo -, «puntando sul tema della responsabilità sociale d’impresa vissuta non solo a livello narrativo, ma della pratica operativa». E tutto questo «per cui il dialogo con la Chiesa è centrale», conoscendo ciò che si può fare e ciò che non si può fare e insegnando la vera sostenibilità (magari mettendo attorno a un tavolo lavoratori e imprese). La parola-chiave potrebbe essere purpose, scopo, intento». Ovviamente, in senso ampio.   

Il prorettore Faroldi si sofferma sulle dimensioni di tempo e spazio: «Al centro di tutto il nostro percorso abbiamo posto lo studente, come base del futuro della nazione e della comunità, anche perché le nuove generazioni, con le difficoltà che stanno attraversando, sono la cartina di tornasole della società. Abbiamo voluto creare spazi materiali e immateriali: quelli dell’aula, della residenza, e quelli di tutto ciò che non lo è con l’iniziativa “Vivipolimi”. Il nostro slogan è stato “Un campus chiamato città”. Il ruolo oggi dell’Università è la ricostruzione fisica e morale. Non abbiamo cercato alchimie o scorciatoie e, mai come ora, siamo una comunità coesa. Questo è un momento strategico per quella che è una non una rifondazione, ma un’accelerazione di processi strategici già in essere che tentiamo di governare nel migliore dei modi».

Delle buone pratiche e delle sinergie parla la prorettrice Abbracchio: «Già pochi giorni dopo l’inizio della pandemia, vi è stata una mobilitazione della ricerca. Ad aprile 2020, in Statale, erano in corso più di 330 ricerche spontanee sulla pandemia. Naturalmente c’era bisogno di soldi, non vi erano fondi ad hoc, e allora abbiamo avviato un budget di avvio per non aspettare nemmeno un giorno. Nell’arco di poche settimane si è fatto un lavoro che normalmente richiede due o tre anni, trovando nuove terapie antivirali e di diagnosi, ma anche studi sulla popolazione per vedere la circolazione del virus. Senza il linguaggio della scienza questo non sarebbe potuto succedere. La libertà e la necessità di comunicare i dati è stata percepita da tutti prepotentemente. Poi è emersa la voglia di sviluppare modelli più sostenibili, con la consapevolezza di ridisegnare l’uomo perché tutto si lega e nessuno si salva da solo. A partire da settembre abbiamo organizzato una commissione interna di Ateneo, chiedendoci come potevamo metterci a disposizione del Paese, lanciando nove sfide, sia mediche – l’ospedale diffuso -, sia sull’integrazione, sulle questioni sociali-economiche, sulla digitalizzazione, per esempio, di tutto il nostro patrimonio culturale».

Parole cui fa eco il prorettore Orlandi che ricorda l’impegno profuso per collegare tutti gli studenti in brevissimo tempo alla didattica a distanza: «È stato uno sforzo inutile? No, ma nemmeno vogliamo diventare un’università telematica. L’online è uno strumento in più per fare una didattica migliore: da un’emergenza siamo passati a un’opportunità per il futuro. La pandemia ha insegnato che esiste solo scienza buona o cattiva, non soft o hard: noi non prendiamo decisioni, offriamo dati e le scelte che, poi, vengono operate sono politiche. Dare solo numeri senza mediazioni è una delle cose più pericolose che si possano fare».

Infine l’intervento del rettore Anelli che evidenzia la capacità delle Università milanesi e lombarde di funzionare in modo coordinato e armonico fin dall’inizio della pandemia: «Il senso profondo di un’Università Cattolica è di rendere presente la voce di una riflessione culturalmente e valorialmente connotata. Il tema della conoscenza si pone, però, con particolare problematicità, tanto che gran parte delle complessità di oggi nasce dal progresso delle conoscenze per cui l’uomo ha una grande capacità di agire su ciò che lo circonda. La questione è che qualche volta questo scappa di mano. Abbiamo per esempio innescato una modificazione dell’ambiente che ha creato un meccanismo che cammina da solo, si pensi ai cambiamenti climatici». La risposta non è certamente,la decrescita, ma «una crescita che non crei diseguaglianza». E, allora, come pensare a un sistema socioeconomico che possa risanarsi? «Deve diventare una società dell’apprendimento, certo, ma anche dell’educazione. All’università – che non è l’unico luogo dove si crea conoscenza, ma è quello in cui si formano nuovi conoscenti -, spetta di far capire il perché si vuole apprendere delle conoscenze. Se è diffuso un certo tasso di cultura, la società rispetta le scienze specifiche e un passato culturale solido rende più coesa l’intera società. Questo permette di non avere reazioni troppo emotive e di rispettare tutti i saperi». Come a dire che c’è anche un «valore politico della conoscenza», rispetto al quale il mondo accademico ha delle responsabilità, a patto – e questo può essere un periodo favorevole – di creare percorsi nuovi e flessibili e di eliminare lacci e lacciuoli che ancora legano strutturalmente l’attività degli atenei.

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