Per Ivana Pais, docente di Sociologia economica all’Università cattolica, oggi chi cerca un'impiego vuole spazio anche per altri modi di esprimersi. Esigenza che nasce anche dalle offerte economiche, diverse rispetto al passato

di Lorenzo Garbarino

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Non è vero che i giovani non hanno più voglia di lavorare. Ivana Pais, docente di Sociologia economica all’Università cattolica e relatrice alla prossima Veglia per il lavoro (leggi qui), racconta invece come siano cambiate le scelte di vita delle persone. «Le ricerche che abbiamo a disposizione sui giovani mostrano alcune tendenze che sono già entrate nel dibattito pubblico. Oggi le nuove generazioni non considerano più il lavoro al primo posto. È una questione delicata, perché a volte è interpretata quasi come un disinteresse, un rifiuto».

Dietro questi no, Pais sottolinea come le ragioni affondino le radici in domande esistenziali. Le nuove generazioni cercano infatti una professione che lasci spazio per un’espressività che vada al di là dell’orario di lavoro. Le ricerche hanno osservato come questa trasformazione sia dovuta anche all’incapacità del mercato di offrire gli incentivi di un tempo. Nelle generazioni precedenti alcune situazioni professionali permettevano, a fronte di un investimento totale, corrispettivi economici equivalenti. «Oggi – evidenzia Pais – queste condizioni non ci sono più. L’approccio dei giovani va anche letto in questa chiave. Per molti il ragionamento è che, a pari condizioni di lavoro, non avrebbero comunque il ritorno economico che invece ai genitori era ed è consentito».

Stipendi troppo bassi dirigono anche la scelta della città di residenza. A Milano per esempio, dove l’affitto di una stanza costa almeno 700 euro, non tutte le professioni garantiscono una vita dignitosa. Chi non ha una famiglia che possa sostenerli in un primo momento, o lavoratori come camerieri e insegnanti, scelgono così di vivere altrove, scomparendo dalle città troppo costose. Nasce anche da questi fenomeni la mancanza di lavoratori in determinati settori.

Pais esclude categoricamente dal dibattito le storie di imprenditori che offrono posti di lavoro, ma che i giovani rifiutano. «Come sempre non si può generalizzare, ma voglio citare questo caso che riguarda anche il mondo dell’informazione. Quando viene rilanciata questo genere di notizia, di solito verifico gli annunci: sono sistematicamente irricevibili da parte di qualunque persona. Quello che viene denunciato come un atteggiamento dei giovani che si rifiutano di lavorare, spesso invece andrebbe letto come offerte di lavoro oscene e che non dovrebbero trovare spazio».

Dalle ricerche, infatti, risulta che gli imprenditori che vogliono tenersi stretti i dipendenti si concentrano nel costruire un’offerta attenta al benessere del lavoratore, proprio per riuscire ad attrarlo e trattenerlo una volta avviato il rapporto di lavoro. Un’esigenza sentita dai giovani, ad esempio, è il costante confronto con i colleghi. Per questa ragione l’esigenza dello smart working non è particolarmente richiesta, come invece accade per altri dipendenti. «Il lavoro da remoto – spiega Pais – è una necessità per chi provvede a figli o genitori. I giovani l’hanno subìta dalla scuola fino alle prime esperienze professionali, ma hanno invece fame di socialità in presenza. Cercano casomai la flessibilità oraria al lavoro da remoto tout-court. Anche perché sono i primi a rendersi conto di aver bisogno di un confronto costante per apprendere. Per questo lo chiedono meno».

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