Il segretario regionale della Cisl Lombardia analizza le conseguenze sociali della pandemia, i settori e le persone più colpite (in primis le lavoratrici) e valuta le prospettive legate allo sblocco dei licenziamenti
di Stefania
CECCHETTI
«La pandemia in atto da più di un anno ha creato una situazione drammatica per il mondo del lavoro. Non ci sono solo le persone che hanno perso la loro occupazione e sono a rischio di fragilità, ma anche coloro che non riescono a entrare nel mondo del lavoro, considerando la particolare situazione di incertezza economica. Il blocco generalizzato dei licenziamenti e la copertura assicurata ai lavoratori dal sistema di ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione guadagni, hanno concorso a mantenere una tenuta occupazionale. Ma il termine della proroga del blocco, potrebbe esporre molti lavoratori a rilevanti rischi di perdita del lavoro». A parlare è Paola Gilardoni, segretario regionale della Cisl Lombardia.
Cosa ci dicono i numeri sul mondo del lavoro?
Uno degli ultimi monitoraggi Istat sulla dinamica occupazionale ha registrato una perdita di 945 mila unità dal febbraio 2020 al febbraio 2021, pari a un 4% di occupazione maschile e a un 4,2% di occupazione femminile. La maggior parte delle riduzioni incide sui lavoratori con contratto a termine e autonomi (circa il 13% i primi e circa il 7% i secondi). Cifre significative, se si pensa che tutto questo è avvenuto con il blocco dei licenziamenti.
Con lo sblocco dei licenziamenti cosa accadrà?
Serve un piano di ripresa economica, di politiche attive del lavoro e nel contempo di riforma degli ammortizzatori sociali per accompagnare la fase in cui verrà meno il blocco licenziamenti, per garantire la tenuta occupazionale. Si renderanno necessari percorsi di riqualificazione dei lavoratori in funzione dei nuovi bisogni delle imprese e dei mercati, ma anche nuove competenze per accompagnare i processi di innovazione come quella digitale ed ecologica, connessi ai programmi di rilancio dell’economia. Per esempio sarà opportuno promuovere nuove abilità nel settore green, della transizione energetica, dell’economia circolare, della mobilità sostenibile.
La crisi indotta dalla pandemia ha colpito di più il lavoro femminile?
I settori che stanno soffrendo di più delle misure, pur necessarie, di contenimento del contagio sono quello turistico, fieristico, alberghiero, degli eventi, spettacolo, ristorazione e parte del commercio. Tutti settori che vedono un largo impiego femminile. Ci sono poi settori in cui il lavoro non è mancato, ma è stato riorganizzato grazie al lavoro da casa, che con la pandemia ha avuto un’accelerazione rilevante. Secondo i dati Istat prima dell’emergenza sanitaria solo l’1,2% dei lavoratori lavorava a distanza. Siamo passati al 9% da marzo ad aprile 2020. Nelle grandi imprese si è raggiunto il 21% dei lavoratori.
Per le donne, insomma, la pandemia ha peggiorato ulteriormente la situazione?
Sì, anche se l’occupazione femminile era caratterizzata da una certa fragilità già prima della pandemia. Oltre a una differenza di tasso di occupazione, del 59.9 % per le donne e del 74% per gli uomini a fine 2020 (dato Unioncamere Lombardia), tra lavoratori e lavoratrici ci sono anche differenze retributive derivanti ad esempio dal diverso numero di ore lavorate. Mentre la maggior parte dei lavoratori uomini ha un contratto a tempo pieno (91% in Italia e 93% in Lombardia), il 33% delle donne, sia in Italia sia in Lombardia, occupa una posizione lavorativa con contratto part-time (dati Polis Lombardia). Frequentemente il part-time è infatti collegato a occupazioni meno retribuite e prestigiose e spesso costituisce un ostacolo per la crescita lavorativa e la carriera. Il più delle volte il part-time non è una scelta volontaria, ma è quello che il mercato offre soprattutto nei settori tradizionalmente occupati dalle donne come le pulizie o la ristorazione, che sono per lo più impieghi a ore, con un orario spesso non pieno.
Per tante il part-time nasce dall’esigenza di conciliare i tempi del lavoro e quelli della famiglia…
È vero, il tema della conciliazione è in capo alle donne, per lo più, anche se in realtà è un’esigenza di tutta la famiglia. Inoltre, al termine “conciliazione” io preferisco quello di “armonizzazione”. La dimensione familiare e quella lavorativa sono entrambe costitutive della donna, credo non vadano viste in una logica di tensione.
Come facilitare questa “armonizzazione” dei tempi lavorativi e di quelli familiari?
Credo che i pilastri a sostegno della lavoratrice siano tre. Sul fronte delle istituzioni senz’altro un potenziamento dei servizi alla famiglia sul territorio, come nidi e scuole dell’infanzia. In Italia i bambini sotto i 3 anni che frequentano una struttura sono solo il 26%, mentre la media europea è del 35%. Questo avviene per diverse ragioni. Innanzitutto, la limitata e non uniforme presenza di servizi sul territorio, ma anche per il loro costo. Poi ci sono alcuni nidi che prevedono sì tariffe agevolate, ma criteri di selezione che tendono a favorire le famiglie in cui entrambi i genitori già lavorano e questo rischia di penalizzare chi sta cercando il lavoro. Sul fronte delle aziende, invece, servirebbe un’organizzazione del lavoro e degli orari più flessibile, che tenga in considerazione anche le esigenze di cura delle lavoratrici e dei lavoratori. Per esempio potrebbe essere utile un uso più esteso dello smart working, innovativo modello organizzativo che la pandemia ha sdoganato. Sono inoltre interessanti le esperienze di “welfare aziendale”, ovvero servizi o misure economiche, concordati tra azienda e sindacato, a favore dei lavoratori come il sostegno alla genitorialità, quali i contributi per l’iscrizione agli asili, ai servizi pre o post scuola, o ai centri estivi. Ma il vero e proprio cardine dell’armonizzazione per le donne è ancora costituito dai nonni, che sono il sostegno principale per il 60% delle famiglie con i genitori entrambi occupati. Mai come in questo momento di pandemia abbiamo capito la loro importanza, perché la necessità di metterli in sicurezza ha privato del loro sostegno molte famiglie, esponendole alla fragilità.
Quali altri interventi a favore dell’occupazione femminile si possono pensare?
Uno strumento sperimentale, poi strutturato gradualmente nel tempo, realizzato in Lombardia e secondo la Cisl molto interessante è quello dei piani territoriali di conciliazione definiti tra le parti economiche e sociali, le istituzioni e le associazioni, con lo scopo di responsabilizzare tutti gli attori in gioco e di valorizzare le esperienze di sussidiarietà del territorio. Considerato il contesto e i nuovi bisogni connessi anche all’emergenza sanitaria pensiamo sia necessario un aggiornamento dell’ultima programmazione regionale del 2019, anche attraverso dedicati finanziamenti con l’utilizzo di risorse europee, da finalizzarsi al rafforzamento dei piani territoriali di conciliazione.