L’auspicio a un rinnovato contributo femminile alla vita associativa, con particolare riferimento al Cif, nell’intervento dell’Arcivescovo a un convegno in Regione sui corpi intermedi
di Annamaria
Braccini
I nemici dell’associazionismo e i rimedi per arginarli, il mondo di oggi, sempre più complesso, dove si rifugge istintivamente da vincoli continuativi. L’individualismo dilagante che non permette di realizzare a pieno la vocazione che appartiene a ciascuno, quella di essere in relazione profonda e feconda con gli altri per dare un domani al mondo.
Sono temi di ampio respiro, quelli che ha affrontato l’Arcivescovo intervenendo al convegno «Il Cif e l’associazionismo. L’importanza dei corpi intermedi», promosso dal Consiglio regionale, dal Centro Italiano Femminile e dalla Federazione Aiccre regionale, presso la Sala del Gonfalone di Regione Lombardia. Per la Regione era presente Letizia Caccavale, presidente del Consiglio Pari Opportunità.
L’apprezzamento del Cif
Appassionati e coinvolgenti gli interventi, tra cui quello di Alessandra Ghisleri, presidente di Euromedia Research, istituto che ha curato una indagine nazionale sulla partecipazione delle donne italiane e sull’apprezzamento del Cif, da cui ha preso le mosse il convegno. Un apprezzamento alto – una donna su cinque ne conosce le attività – confermato da tre quarti del campione. In calo, però, la disponibilità a impegnarsi (pur con un 40% che si dice coinvolto): un dato che non può non interrogare – il volontariato è in diminuzione ovunque nel Paese – e che chiede alle donne di tornare a essere protagoniste nello sviluppo anche politico e intellettuale del Paese, secondo quanto ha sottolineato Renata Natili Micheli, presidente nazionale del Cif.
Da questa stessa preoccupazione, in riferimento a un associazionismo in difficoltà, ha avviato la sua comunicazione l’Arcivescovo, indicando tre pericoli o, meglio, «nemici» della dinamica associativa delle donne.
L’intervento dell’Arcivescovo
«Un associazionismo che ha aggregato numeri notevoli in passato, oggi vede delle complessità. Individuo tre nemici nella realtà contemporanea e da vescovo, prete e uomo di questa società mi chiedo come sconfiggerli», spiega monsignor Delpini.
In primis, l’individualismo: «Un fenomeno complesso, una passività che è motivata dalla persuasione che non sia sopportabile avere vincoli che impegnano con altri. Al contrario, l’associazionismo intende creare rapporti continuativi; perciò oggi è preferibile non avere nessuna tessera, nessuna associazione, nessun impegno che abbia durata nel tempo». Ma esiste anche un’altra radice dell’individualismo, per il Vescovo: «Quella sorta di tristezza che induce all’indifferenza, uno stare male nella società che spinge a chiudersi nelle proprie case, con un disamore per il contesto in cui si vive».
Come si rimedia, dunque? «La via da percorrere è un’intraprendenza capace di invitare: non un appello generico, una predica che, forse, poteva funzionare in tempi andati. Qui si tratta di avere una relazione personale che spinga a trovare un rimedio alla tristezza, mostrando come ci sia un vantaggio nella fedeltà a far parte di un’associazione. È come un seme che germoglia poco a poco. Ciascuna di voi deve chiedersi chi potrebbe invitare al Cif. L’associazionismo fa bene e dovete testimoniarlo», scandisce l’Arcivescovo, rivolgendosi direttamente alle convenute.
Secondo nemico, «l’impopolarità del femminile». «L’ideologia del gender pervade tutto come una sorta di grigiore che si diffonde, mentre noi riteniamo fondamentale l’assunzione del maschile e del femminile. L’idea di presentarsi sotto un’identità dichiaratamente femminile, come fa il Cif, è guardata ora con sospetto, perché la forma più raccomandabile di persona pare essere quella ambigua: tutto questo crea un malessere soprattutto nel momento evolutivo, per cui sull’identificazione di sé come uomo o donna cala il silenzio». Di fronte a tutto ciò, non dobbiamo fare battaglie o crociate – suggerisce -, ma «comprendere che la potenzialità di affrontare questo tema è nell’interpretare la vita come una vocazione, non come un foglio bianco su cui posso scrivere a piacere, un giorno Mario e un altro Maria».
«Il tema della vocazione è tradizionale nella teologia cristiana, ma è stato mortificato dal legarlo solo ad alcune scelte di vita come diventare prete o religiosa. Al contrario, la comprensione della vocazione coinvolge anche una corporeità come dono, identificativa della libertà, che aiuta a capire chi siamo veramente. La visione cristiana della vita mette in evidenza che veniamo da un amore e siamo chiamati all’amore inteso come capacità di relazione e di generare futuro».
Terzo nemico, la crisi dell’associazionismo cattolico, e non, che viene dal complicarsi della vita: «Pare inevitabile oggi essere dentro un ingranaggio che non lascia respiro. L’associazionismo chiede tempo, disponibilità e ciò è difficile in una vita frenetica che ostacola la disponibilità. Per questo si sta esaurendo anche il volontariato dei giovani, non perché siano diventati più indifferenti o cattivi». Il rimedio? «Rendere facile fare il bene», trovando il modo di avere dei tempi a disposizione: «Dobbiamo propiziare la sosta, la possibilità di una vita più sostenibile. Anche con una partecipazione limitata, ma che valorizzi ciò che ciascuno può dare, si può fare molto».
Il ruolo del Terzo settore
Una realtà, concreta quella del Terzo settore che ha fatto il bene anche in tempo di Covid, come ha sostenuto, dati alla mano, Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà: «Il ruolo del Terzo Settore si conferma fondamentale nel nostro Paese, un universo di 375 mila enti (25% in più di 10 anni fa) tra associazioni, fondazioni, cooperative e sindacati, con 900 mila addetti (di cui il 70% donne), 4 milioni di volontari e una produzione di servizi stimabile in 80 miliardi di euro, pari al 5% del Pil. A queste realtà destinano il 5 per mille ben 15 milioni di contribuenti».
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