Laura Arduini, responsabile dell’Area salute della Fondazione, descrive le angosce provocate da guerre, torture, traversate e arrivi in luoghi sconosciuti, e come si opera per farvi fronte

di Luisa BOVE

profughi casa della carità

Alla Casa della Carità, in 13 anni di attività, sono passate tantissime persone con sofferenza psichica: questo spiega la presenza oggi di tre psichiatri oltre ai medici. Attualmente gli ospiti sono 140, di cui 120 stranieri, molti dei quali con problemi di salute mentale o di sofferenza psichica, alcuni in modo più conclamato, altri senza sintomi visibili. Molti di loro non manifestavano disagi prima della partenza, assicura Laura Arduini, psichiatra responsabile dell’Area salute della Casa della carità, «ma il viaggio, la tortura, la guerra, la traversata in mare, l’arrivo nei centri di prima accoglienza, il trasferimento in altro luogo sconosciuto provoca ritraumatizzazione». Non ha dubbi: oggi servirebbero strutture più idonee. «Invece la risposta che il sistema dà sono solo 8 posti Sprar per disagio mentale a Milano, tutti presso la Casa della carità, dove abbiamo personale psichiatrico a tempo pieno». Servirebbe anche molta più formazione in tutti gli operatori sanitari, «per trattare con maggior competenza e delicatezza queste storie di enorme sofferenza e angoscia che spesso rimangono invisibili, fino a casi clamorosi come quello tristissimo del suicidio dei giorni scorsi».

Gli ospiti arrivano soprattutto da Africa, Maghreb e zone di guerra, spiega Arduini. «In alcuni casi le loro sofferenze sono legate ai traumi del viaggio, alle torture subite nei loro Paesi o nei lunghi di stazionamento in Libia prima di imbarcarsi. Nella mia professione, per quanto abbia ascoltato tante storie di dolore, ogni volta mi stupisco di quanto siano sempre più crudeli le torture che infliggono». Anche la traversata in mare può provocare un trauma: «C’è chi ha visto morire le persone con cui viaggiava. Alcune donne che ospitiamo hanno perso il loro bambino ammalatosi per le condizioni del viaggio o per annegamento. Molti di loro invece provano angoscia perché non sanno dove sono finiti i familiari… Questa sofferenza possiamo anche chiamarla disturbo post-traumatico da stress. Un nostro ospite, per esempio, non sa dove sia suo fratello con cui ha fatto il viaggio, non sa neppure se sia vivo o morto. Questo rende ancora più faticosa la loro riprogrammazione futura, anche solo imparare l’italiano, perché una parte della mente è sempre “occupata” da questi pensieri carichi di angoscia».

Altri ospiti hanno una sofferenza psichica per le condizioni in cui si trovano adesso, per il fallimento del loro progetto migratorio, perché capiscono che la possibilità di trovare lavoro diventa difficile e rimettono tutto in discussione; poi segue una caduta depressiva. «Altri – continua la psichiatra – provano forte angoscia per il senso di precarietà e l’abbandono in cui vivono». Infine, una minima percentuale di persone partono già con una patologia, e sono spinte dalla famiglia per venire a curarsi in Italia.

 

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