Il cappellano commenta l’evasione di Natale e sottolinea: «Questi ragazzi sono già soli e abbandonati prima ancora di “arrivare” in istituto»
di Claudio
URBANO
Mette in fila una serie di problemi, don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria, commentando l’evasione di sette ragazzi nel giorno di Natale, ma sottolinea: «Il problema è più fuori che dentro il carcere».
Partiamo dalla situazione del Beccaria: possiamo leggere quest’episodio come un evento grave, ma isolato, o è il sintomo di un disagio diffuso?
I ragazzi evasi hanno storie diverse: sono ragazzi italiani e stranieri, uno di loro è un minore straniero non accompagnato, altri hanno anche belle famiglie. Possiamo dire che riflettono quello che è il panorama dei ragazzi nelle carceri minorili oggi in Italia: non c’è una categoria sola; è piuttosto un disagio giovanile molto diffuso, che si estende un po’ a tutte le fasce della società. C’è poi un’altra considerazione da fare: certamente il carcere è un dispositivo totalitario, quindi per sua stessa natura è violento. Per quanto il dispositivo della detenzione sia già adottato, per i minori, come una misura residuale, come un’extrema ratio, quella detentiva rimane una misura su cui interrogarsi. Perché per un minore il carcere è sempre stigmatizzante: può rallentarne la crescita, può definirne anche una “identità” criminale; quindi bisogna chiedersi se, se in qualche forma, questo dispositivo possa essere superato.
Diceva che il problema maggiore, guardando ai ragazzi, è fuori dal carcere…
Guardando alla situazione in un’ottica di prevenzione, dobbiamo dire che evidentemente questi ragazzi sono già soli, abbandonati quando sono fuori, prima di “arrivare” in carcere. Non sono intercettati dalla società civile, dal mondo del terzo settore, dalle parrocchie. E il rischio è che questo abbandono generi per loro un vissuto di continua fuga da loro stessi. Molti ragazzi che arrivano al Beccaria scappano dalle comunità di accoglienza: è un settore che è in grave emergenza. Ce ne sono troppe poche adatte ad accoglierli, e mancano sempre di più gli educatori.
E in carcere cosa si può fare? Si può replicare un modello come quello del carcere di Bollate, con diversi percorsi di avviamento a una professione?
Assolutamente sì. Il mondo delle aziende, del terzo settore deve entrare in carcere. Il tempo del carcere non deve essere un tempo vuoto, o con proposte che per i ragazzi sono superficiali. Deve invece essere speso per una formazione, per una crescita della personalità. Se un ragazzo si sente protagonista di qualcosa di importante, allora si tranquillizza e comincia a investire in un progetto. Altrimenti il tempo vuoto nelle celle non può che generare violenza. Il Beccaria, in questo senso, è stato un modello positivo che ha anticipato quello di molte carceri in Italia: deve tornare a essere così. Bisogna, cioè, evitare il rischio che il carcere minorile sia un carcere “minore” in tutti i sensi. L’attenzione dello Stato, delle istituzioni e di tutte le parti in causa deve essere forte. Bisogna investire su questo, soprattutto per le nuove generazioni.
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