Il Vicario episcopale interviene nel dibattito sull’emergenza abitativa, sottolineando la necessità che la città in trasformazione rafforzi i legami di comunità e il ruolo che la Chiesa può avere in questo processo

di Annamaria Braccini

Milano Navigli

Il rischio di una lettura ideologica del fenomeno, di falsificazioni e semplificazioni, di trattare il tema della casa secondo coppie di opposti destinate a non incontrarsi mai: centro-periferia, ricchi-poveri, edilizia popolare-quartieri di eccellenza. Un rischio «sempre dietro l’angolo», per usare un’espressione del vicario episcopale monsignor Luca Bressan, che spiega: «È vero che la città è fatta di dualismi, ma non sono quelli che immaginiamo di conoscere. Potremmo dire che l’attuale opposizione molto evidenziata è quella declinata sul lato economico, tra chi la città la costruisce, la gestisce e l’immagina come una fonte di reddito, e chi la abita e la pensa come un serbatoio di senso della propria esperienza quotidiana. Il problema è far incontrare queste due realtà, altrimenti il rischio appunto – come dice il sociologo Richard Sennet – è l’Apocalisse, ossia, “due mondi che non si incontrano producono violenza”».

Certamente la questione economica del costo delle case a Milano conta molto. L’Arcivescovo nel Discorso alla Città 2022  (vedi qui lo speciale) ha indicato, però, anche un’altra deriva che può essere problematica, come una riqualificazione delle periferie che porta a un aumento dei costi abitativi, per cui abitanti lì da anni vengono ricacciati sempre più ai margini. Secondo lei è un pericolo reale?
La domanda è vera. Al Forum dell’Abitare – tenutosi a Milano dal 20 al 22 marzo – sono state avanzate proposte interessanti. Perché, per esempio, non immaginare sussidi che, anziché intervenire sull’individuo, incidano sulla sua forma abitativa, con una sorta di riorganizzazione e regolarizzazione degli affitti? Perché non gestire anche le forme di «gentrificazione» (la trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni), anche a livello individuale e non solo di mercato? Senza dimenticare alcuni processi, come il fenomeno – a Milano molto diffuso, soprattutto nella fascia abitativa intermedia che va dalla Circolare esterna alla Cerchia dei Navigli – di appartamenti affittati come Bed and breakfast impoverendo la città, perché la privano di possibili case in affitto e, allo stesso tempo, favoriscono una presenza temporanea di tipo “mordi e fuggi” che non genera tessuto sociale. Su questo occorre riflettere in profondità.

Monsignor Luca Bressan

Nel ripensamento di una città in forte evoluzione com’è oggi Milano, crede che la presenza di alcuni luoghi significativi legati alla Chiesa – quali il Refettorio Ambrosiano, ma non solo – possano essere fattori aggregativi ancora validi?
La città non può essere pensata a tavolino: è come un corpo vivente, ha regole sue proprie, per cui chi vuole governarne la crescita deve inserirsi in questo dinamismo vitale portandovi energie. L’importanza di avere luoghi che suscitino legami e offrano anche uno stile comune alle regole dell’abitare è molto interessante. Oggi, in questa società di pluralismo religioso e in cui la cultura elabora nuove forme di spiritualità, trovare spazi simbolici che permettano alla gente di accedere al senso della propria vita e, quindi, a dimensioni trascendenti mi pare fondamentale. Quegli spazi sono il “di più” che ogni città offre, diventando più bella e permettendo a chi la vive di trovare nuove possibilità ed energie che nutrono le domande profonde che tutti abbiamo dentro come il desiderio di felicità e la voglia di essere in comunione.

L’Arcivescovo, visitando una periferia tra le più difficili, come è quella di Giambellino tra le case popolari di via degli Apuli, ha ascoltato il grido di dolore di alcuni abitanti. Secondo il suo punto di vista, Milano riesce a intercettare certi bisogni e problematiche, al di là dei buoni propositi e degli slogan politici? Anche perché quartieri anche molto degradati, tornano a vivere quando si fa qualcosa di concreto per migliorarli, come dimostra Quarto Oggiaro…
È verissimo. Il predecessore del nostro Arcivescovo, il cardinale Scola, camminando nelle periferie ed elaborando anche lui un Discorso alla Città, ha usato un’immagine, secondo me, molto pregnante. Ha detto che Milano ormai, dopo Expo, si avvia a diventare come le grandi metropoli del Nord Europa, ma che ha un modo di rappresentarsi come se fosse ancora un borgo medievale. Dobbiamo aiutare la metropoli a costruire di se stessa e delle dinamiche che sta vivendo una giusta rappresentazione, altrimenti il rischio è che la gente non abbia più voce, rimanga senza parole per elaborare i disagi e le emozioni negative che sperimenta. Questo lo si può fare a vari livelli: anzitutto, creando vicinanza, reali occasioni di comunità e, proprio a partire dal fatto di stare tra la gente, portando le grammatiche, le idee che permettono di risolvere i problemi, nella consapevolezza che ci sono situazioni che hanno saputo fiorire dove nessuno immaginava.

La parrocchia in alcuni quartieri può svolgere questo ruolo? Si fa sempre l’esempio dell’arcivescovo Montini che, con il suo “Piano Nuove Chiese”, riuscì a creare dei presidi che resistono ancora adesso dopo più di mezzo secolo…
Si, ne sono convinto. La parrocchia fa questo lavoro e deve continuare a farlo, anche in modo nuovo. Dobbiamo abbandonare l’idea che la Chiesa presidi il territorio con un reticolo parrocchiale che ora presenta molte disomogeneità e che, però, ci permette, laddove vi riusciamo, di accendere spazi di aggregazione simbolica, sapendo che non siamo gli unici a farlo, ma che, allo stesso tempo, abbiamo una visione del legame sociale chiara e una carica di comunione che è solo nostra.

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