La calciatrice, messa fuori rosa dalla sua società a causa di una gravidanza, testimonial a una iniziativa a Bresso sabato 27 maggio: «Mai tacere, i figli sono un dono prezioso»
di Lorenzo
Garbarino
Ci sarà anche la calciatrice Alice Pignagnoli la sera di sabato 27 maggio all’oratorio di Madonna della Misericordia (via Villoresi 43) per salutare le ragazze della squadra del Bresso calcio e dell’associazione Turris Eburnea (leggi qui).
La presenza di Pignagnoli, salita alle cronache per le sue denunce in tema di atlete discriminate, permetterà a tutti i presenti di ricordare come affrontare le discriminazioni che ancora oggi sono presenti nello sport.
Che valore hanno per lei queste serate?
Tantissimo, perché entrano nel tessuto sociale delle persone. Arrivano in tutte le case e quando arrivano anche qui scardinano gli stereotipi. Iniziative cosi sono importanti e il mio contributo può aiutare ad azzerare questa mentalità anche tra le persone fuori dal calcio femminile, una realtà che è ancora tanto stereotipata e che non si conosce.
Cosa hanno comportato le due gravidanze?
Ogni volta che parlo anche del mio libro, ad esempio, racconto la storia di una bambina con un grande sogno, con le aspettative della società degli anni Novanta. C’è anche la storia di una donna che ha sognato di diventare mamma e di abbattere gli stereotipi di questo ambiente: tutte noi sapevamo che se volevi farti una famiglia dovevi smettere di giocare. Quando sono rimasta incinta della prima bimba è stato uno choc per me, perché dopo tanti anni di calcio ad alto livello all’improvviso non ti puoi allenare. Però mi sono detta: ma perché io devo smettere? Chi è che l’ha detto che una mamma non può giocare? Da lì ho cominciato a lavorare e dopo tanta fatica sono rientrata a cento giorni dal cesareo, giocando poi tutte le partite da titolare di quella stagione. Prima non ci credeva nessuno, tranne il Cesena che mi ha dato la possibilità di fare questo percorso. Abbiamo dimostrato che fare l’atleta a livello agonista non esclude di potersi fare una famiglia. Io credo che un figlio, tanto più con i tassi di denatalità allarmanti del nostro Paese, sia un dono molto prezioso, ma di cui tutta la comunità dovrebbe averne cura. Noi genitori sappiamo che chi decide di fare un figlio oggi lo fa con le proprie forze. È venuto a mancare quel senso di comunità che c’era un tempo dove ci si dava una mano l’un l’altro. È molto brutto vedere come un genitore, che mette al mondo un figlio, addirittura sia ostacolato, soprattutto dopo l’esperienza di Cesena, dove avevamo dimostrato che si poteva essere mamma e giocatrice.
Il ritorno in campo era stato rapido…
Il tempo di recupero non è nemmeno così lungo. Ad esempio, quando sono rimasta incinta la prima volta, una ragazza nell’ultima mia partita si è rotta il crociato e son rientrata in campo prima di lei. Ma è anche brutto pensare alla gravidanza come un infortunio. La reazione della Lucchese è stata come se io le avessi fatto un dispetto. Inizialmente mi hanno chiesto la restituzione del materiale sportivo, poi mi hanno messo fuori rosa, che per me è stata anche più grave rispetto alle parti economiche. L’aspetto più brutto è stato la totale solitudine nella quale ho vissuto questa maternità, senza supporto psicologico. Lo sport invece insegna che se anche una stagione va male si fa parte di qualcosa di più grande. Con l’esperienza pregressa di mia figlia Eva tra le compagne immaginavo un percorso simile. E invece, nessuna delle mie compagne mi ha mai scritto nemmeno un messaggio per chiedermi come stavo. Oggi la situazione contrattuale si è risolta, ma tuttora sono ancora tesserata e fuori rosa per la Lucchese. Credo sia una pagina molto triste, ma simile a molti episodi meno noti. Se non incontri brave società, come può essere stato il Cesena, siamo ancora in un sistema purtroppo dove la parte delle giocatrici è troppo debole. Spero di aver fatto qualcosa di importante per il movimento, anche se mi sto rendendo conto di quello che è il ritorno negativo. Nessuna squadra si è ancora interessata a me per la prossima stagione e, con la maternità che mi scade a dicembre, dal primo gennaio sono disoccupata se non trovo una squadra.
Cosa fare davanti a queste ingiustizie?
Affidarsi a persone che ti vogliono bene e non tacere. Io ho aspettato due mesi, perché speravo che cambiassero idea. Un po’ perché per me era una vergogna, proprio per il calcio e per il nostro movimento, che succedesse una cosa del genere. Due anni fa la pallavolista Lara Lugli aveva vissuto più o meno la mia stessa vicissitudine ed era finita su tutti i giornali. Dopo due anni siamo di nuovo allo stesso punto. Quando mi sono accorta che avevano tentato di svincolarmi contro la mia volontà, ho capito che non sarebbero più tornati indietro e ho rilasciato un’intervista diventata poi virale. Ne hanno parlato persino alla BBC. Non tutti nella mia famiglia erano d’accordo che andassi avanti, ma ho sentito questa urgenza di farlo più per le altre che per me, perché alla fine io ho 35 anni, e con due bambini non so per quanto ancora potrò giocare. Non voglio consegnare a quelle che verranno un mondo di questo tipo.
Il calcio femminile soffre ancora di un certo scetticismo?
Assolutamente, basta aprire un qualsiasi post e leggi un odio che non è giustificabile secondo me. Se ad esempio a uno non piace il tennis, semplicemente non lo guarda, non è che si mette a offendere i giocatori. Penso che con il calcio è come se avessimo calpestato un terreno sacro, che fino a poco tempo fa era appannaggio solo degli uomini. So che passa anche da qui il cambiamento culturale dell’Italia. Spero che ogni ragazzino che in futuro veda in tv una giocatrice professionista possa rispettarla per il suo valore, senza paragonarla per forza agli uomini. Nessuno si chiede ad esempio che tempi farebbe Federica Pellegrini se gareggiasse con gli uomini, ma valuta l’atleta per quello che è.
Un consiglio per le donne che oggi cominciano a giocare a calcio?
Credere in loro stesse, di non farsi dire da nessuno che sono sbagliate, perché hanno questa passione. E soprattutto godersi lo sport per quello può dare. Non dobbiamo arrivare a giocare in serie A per sentirci realizzate, tante volte trovo che più si scende di categoria più si ritrovi l’essenza dello sport. E combattere le discriminazioni: io trovo ancora tante bimbe che vengono alla presentazione del mio libro e mi dicono che i compagni di classe le prendono in giro. Questo non è accettabile. Ci pensavo, succedeva a me 30 anni fa, non è possibile che succeda ancora. Continuate a credere nei loro sogni e non accettate che qualcuno decida cosa è giusto e cosa è sbagliato.