Torna a risplendere, dopo un lungo intervento, il ciclo pittorico più importante del Trecento lombardo, opera del migliore allievo di Giotto. Un�nuovo volume ne racconta l'impresa.
di Luca FRIGERIO
Redazione
Giotto giunse a Milano nel 1335, chiamato dai Visconti per decorare i luoghi-simbolo del loro potere. La missione del grande pittore, ormai anziano, non era solo di natura artistica, ma anche diplomatica, sancendo così i buoni rapporti instaurati fra il comune di Firenze e la signoria ambrosiana. Di quelle opere, purtroppo, che il Vasari stesso lodò come magnifiche, non è rimasto nulla: una perdita ancora più grave se si considera che furono gli ultimi lavori del maestro toscano. Ma l’impatto che la pittura di Giotto ebbe sull’arte lombarda fu straordinario. Giotto giunse a Milano nel 1335, chiamato dai Visconti per decorare i luoghi-simbolo del loro potere. La missione del grande pittore, ormai anziano, non era solo di natura artistica, ma anche diplomatica, sancendo così i buoni rapporti instaurati fra il comune di Firenze e la signoria ambrosiana. Di quelle opere, purtroppo, che il Vasari stesso lodò come magnifiche, non è rimasto nulla: una perdita ancora più grave se si considera che furono gli ultimi lavori del maestro toscano. Ma l’impatto che la pittura di Giotto ebbe sull’arte lombarda fu straordinario. Una lode a Maria per immagini Proprio nell’abbazia cistercense di Chiaravalle è conservata la testimonianza più importante di questo stile giottesco. Si tratta, infatti, di splendidi affreschi realizzati attorno al 1340 nel tiburio della chiesa abbaziale, la celebre Ciribiciaccola, come è affettuosamente chiamata dai milanesi. L’autore, come oggi tutta la critica riconosce, è Stefano Fiorentino, nome che già di per sè denuncia chiaramente la sua origine. Un pittore che, secondo i commentatori dell’epoca, fu il miglior seguace di Giotto, e che con il maestro poteva “vantare” una parentela acquisita, avendone sposato la figlia.Un lungo intervento di restauro, durato quasi dieci anni, ci restituisce oggi questo ciclo pittorico in tutta la sua bellezza. Colpisce, di questi dipinti, il segno elegante, leggero, che dà vita a immagini quasi diafane, e che ammanta le figure femminili, in particolar modo, di una bellezza angelica e suadente. Purtroppo la ricchezza cromatica è andata in parte perduta, al punto che riemergono con forza un po’ ovunque le linee di contorno di colore rosso, che tuttavia danno all’insieme una sua caratteristica fisionomia.Il tema scelto per ornare il tiburio, in una parte, cioè, particolarmente significativa della chiesa, fu squisitamente mariano, a ribadire la grande venerazione dei bianchi monaci per la Vergine Maria, a cui lo stesso san Bernardo di Clairvaux aveva dedicato pagine di intenso lirismo e di profonda spiritualità. Fede e poesia che ritornano, con ugual forza e sensibilità, proprio negli affreschi di Stefano Fiorentino. Per comprendere bene le scene raffigurate, bisogna rifarsi a una tradizione assai sentita nel Trecento, quella cioè legata al Transito di Maria. Nulla si dice, a riguardo, nei Vangeli canonici, ma la vicenda è narrata in alcuni testi apocrifi ben conosciuti in epoca medievale, raccolti in quello che era il vero e proprio testo di riferimento dell’epoca per quanto riguardava le vite dei santi: la Legenda Aurea di fra’ Jacopo da Varagine. Un testo che certamente non poteva mancare nella biblioteca monastica di Chiaravalle. La “scimmia della natura” Proprio con l’aiuto di queste pagine, infatti, possiamo “leggere” e comprendere quanto Stefano Fiorentino e la sua bottega dipinsero sulle pareti del tiburio, dall’annuncio della morte a Maria alla sua incoronazione nell’alto dei cieli. Emblematico l’episodio del corteo funebre, dove un losco figuro sembra aggrapparsi al feretro della Madonna portato a spalla dagli apostoli: ebbene, costui, secondo la tradizione, era il sommo sacerdote che, avendo tentato di rovesciare la salma con gesto blasfemo, fu paralizzato per intervento divino, e poi risanato, una volta pentitosi e convertitosi.Stefano lavorò in questo cantiere milanese fino al 1348 (l’anno terribile della peste nera), per poi rientrare nella sua Firenze, forse per problemi di salute. Altre sue mirabili opere, come l’Assunta al Campo Santo di Pisa (distrutta nei bombardamenti dell’ultima guerra), non ci sono più. Ma basta osservare questi meravigliosi affreschi di Chiaravalle per capire perchè egli venne chiamato dai contemporanei “scimmia della natura”: tutt’altro che un’offesa, ma anzi il riconoscimento della sua dote di imitare fedelmente la realtà. In un libro tutte le scoperte Al termine dei restauri degli affreschi di Chiaravalle è stato pubblicato da Electa un ricco volume (Un poema cistercense, 304 pagine, 200 illustrazioni a colori, 120 euro) che attraverso i saggi critici di Mina Gregori e Sandrina Bandera, e per mezzo di un’apposita campagna fotografica, documenta per la prima volta in modo analitico ed esaustivo l’importante ciclo pittorico giottesco. L’abbazia di Chiaravalle, posta alla periferia sud-est di Milano, è visitabile dal martedì al sabato dalle 9 alle 12 e dalle 14,30 alle 17 (la domenica alle 16 visita guidata gratuita). Info, tel. 02 57403404. –