Lo splendido dipinto, conservato nella basilica di Santa Maria della Passione a Milano, ci rivela l'anima del vescovo Borromeo.
di Luca FRIGERIO
La figura di san Carlo emerge dall’oscurità con la forza di una fiamma vivida, luce che guida su un incerto cammino. Un’ombra di barba incornicia il volto scarno, la fronte corrucciata nell’intensità della lettura e della meditazione. Vive di niente, il Borromeo. È un principe della Chiesa, l’abito ne dà evidenza, ma il suo pasto consiste qui in un tozzo di pane e in un sorso d’acqua. Evangelica testimonianza, vissuta ogni giorno, nella solitudine della propria stanza: perché la coerenza inizia prima di tutto con sé stessi. E il suo nutrimento, quotidiano e inesauribile, è nel Crocifisso che sta lì, di fronte a lui.
Questo conservato nella basilica di Santa Maria della Passione a Milano, unanimemente attribuito alla mano di Daniele Crespi, è forse il ritratto più intenso e più vero del santo vescovo Carlo. Il volto è pallido, segnato dalle privazioni, scavato dalle preoccupazioni per il suo gregge, bagnato dalle lacrime che, ancora e sempre nuove, il rimeditare la Passione di Cristo suscita in lui. Ma lo sguardo è vivo, e va dritto. E la sofferenza, quella sofferenza che sembra il grido di tutta l’umanità, si stempera infine in un timido sorriso, interiore felicità dell’estasi, segno dell’amore di un padre…
Daniele Crespi dipinse questo quadro attorno al 1625, poco più che ventenne. E sembra incredibile, pensando alla maturità e alla profondità che ispira quest’opera. Della nuova Accademia Ambrosiana voluta dal cardinale Federico Borromeo, del resto, il Crespi era uno degli allievi più dotati, anche se forse non dei più assidui. Intendiamoci: sui precetti borromaici del buon dipingere – riassumibili nel motto – il nostro pittore non aveva nulla da eccepire, e facilmente li aveva fatti suoi, seppur con le varianti e le innovazioni del genio. Il fatto era, semmai, che di Daniele sembrava proprio non averne bisogno. Era nato , lui.
Sarà stato il clima familiare in cui era cresciuto. Sarà stata quella lontana parentela con l’altro Crespi, Giovan Battista detto il Cerano, che, questo sì, interessava a Daniele osservarlo nelle sue lezioni ambrosiane. Sarà stato quel prodigioso talento che gli agitava il pennello, lasciando a bocca aperta colleghi e committenti. Sarà stato tutto questo e altro ancora, ma il giovane Crespi sembrava bruciare le tappe. Come se intuisse, come se sapesse, che la sua vita sarebbe stata un lampo, e non c’era tempo da perdere tra aule e disquisizioni. Vivrà trent’anni appena, infatti, falciato anch’egli dalla peste, quella del 1630 di manzoniana memoria.
E sono soprattutto i particolari, in questa tela della Madonna della Passione, a colpirci. Come sempre, d’altra parte, nella pittura di Daniele Crespi. Quel pane, ad esempio, che sulla tavola nuda del vescovo ricorda quello della mensa di Emmaus, di caravaggesca memoria. Come il cappello cardinalizio, posato su un altro banco, ai piedi del Cristo in Croce, simbolo dell’affidamento totale e assoluto del ministero sacerdotale e pastorale di Carlo. Come quell’acqua limpida e cristallina, che dice già di un’intima purezza dell’anima. Come ancora quei due uomini sullo sfondo, che scrutano dalla porta senza osare entrare, per paura di disturbare, per timore di distogliere il santo dalla sua devota meditazione. E intanto osservano, apprendono, capiscono.
Crespi portò una ventata rivoluzionaria nella pittura lombarda del primo Seicento. E questo dipinto ne è forse una delle più alte testimonianze. Nulla di superficialmente devozionale vi è in quest’opera, che dice invece dell’essere autentico di un uomo di Dio, della sua forza, della sua fede. Di un uomo che agiva come predicava, e come pensava. Carlo Borromeo morì di consunzione, a soli 46 anni, dopo aver dato tutto alla sua gente e alla sua Chiesa. Davvero qualcosa di straordinario era accaduto, se si pensa che il suo predecessore, Ippolito d’Este, era morto di indigestione senza aver mai messo piede nella diocesi che gli era stata assegnata…