Un piccolo, grande capolavoro del Morazzone, appartenente alla Quadreria arcivescovile, è stato scelto per illustrare la copertinadella nuova Lettera pastorale.
di Luca FRIGERIO
È un’opera modesta per dimensioni, ma straordinaria per qualità, quella scelta per la copertina della lettera che l’arcivescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, rivolge a tutti i fedeli della Chiesa ambrosiana in occasione del nuovo anno pastorale (Santi per vocazione. Sull’esempio di san Carlo Borromeo). Si tratta di un olio su tela attribuito a Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, raffigurante Gesù crocefisso adorato da san Carlo: un dipinto che appartiene alla Quadreria arcivescovile, e che ancor oggi è conservato presso la Curia milanese, negli appartamenti del vescovo.
Una pittura vibrante, densa di emozioni, ricca di spiritualità. Inginocchiato ai piedi della Croce, il Borromeo leva lo sguardo e le mani giunte verso il volto di Cristo, in un atteggiamento di mistica contemplazione e di fervida preghiera. Tre angeli in volo, in forma di putti, raccolgono con dei calici il sangue che sgorga dalle ferite delle mani e del costato del Crocefisso, mentre in basso un quarto angelo raccoglie in un bacile con una spugna il sangue colato dai piedi del Salvatore. Sotto un cielo nero di tempesta e di nubi, squarciato da una luce livida che ne amplifica la tensione drammatica (ma che al contempo pare già preludere il fulgore della resurrezione), si intravedono al centro e sullo sfondo i contorni di monumentali edifici (alcune torri e una cupola), evocazione dell’antica Gerusalemme, ma, probabilmente, anche proiezione della moderna città di Milano, nella prospettiva di un continuo rimando tra passato e presente, in una perenne attualizzazione del mistero della passione, morte e resurrezione di Gesù per la salvezza degli uomini. Di tutti gli uomini, in ogni tempo.
In questa tela, del resto, c’è veramente tutta la forza espressiva, tutta la profondità della predicazione dello stesso san Carlo, che invitava i fedeli, sul modello degli esercizi spirituali ignaziani, a rivivere in prima persona i momenti salienti della vita di Gesù e i suoi insegnamenti, non come curiosi aneddoti nè come semplici precetti, ma come fatti vivi e vitali, fonte di conversione e di speranza, sorgente della vera carità. Che è poi anche l’essenza della poetica del Sacro Monte, tanto cara al Borromeo e ben nota allo stesso Morazzone, che a Varallo ebbe infatti un ruolo di primo piano. Così il pittore varesino trasporta il santo vescovo sul Golgota (o, viceversa, trasferisce il Calvario nel cuore della Lombardia borromaica…), rievocando, come ricorda lo stesso cardinal Tettamanzi nella Lettera pastorale, quell’amore al Crocefisso di san Carlo che spesso lo portava perfino a piangere e a gemere, in una partecipazione assoluta.
Si può notare, inoltre, come l’adorazione di san Carlo verso il Crocefisso si trasformi qui più precisamente in una adorazione eucaristica, proprio in considerazione della valenza data al corpo e al sangue di Cristo, tema centrale, peraltro, della predicazione stessa del vescovo di Milano. Sono infatti veri e propri calici eucaristici quelli nei quali gli angeli raccolgono il sangue che sgorga dalle ferite di Gesù sulla croce, così come il bacile in basso ricorda, per la sua forma “schiacciata”, una patena.
Le dimensioni contenute di quest’opera (poco più di 40 centimetri d’altezza per 30 di base) hanno fatto pensare a una sorta di “bozzetto” che il Mazzucchelli avrebbe realizzato in previsione di una grande pala d’altare. L’altissima qualità pittorica e la cura con cui è rappresentato ogni dettaglio, tuttavia, portano a credere che si tratti piuttosto di un quadro “da camera”, appositamente concepito cioè per una devozione personale, come confermerebbe anche un’antica iscrizione a pennello presente sul telaio («Cum indulgentia S. Caroli»).
Databile per la critica attorno al 1620, e comunque negli anni immediatamente successivi alla canonizzazione di san Carlo, il dipinto potrebbe essere stato commissionato al Morazzone dallo stesso Federico Borromeo, che ben stimava il pittore varesino, essendo questi in piena sintonia con i dettami artistici teorizzati dal fondatore della Biblioteca e dell’Accademia Ambrosiana. Quel che è certo, invece, è che l’opera figura dal 1650 nella collezione del cardinal Monti, e da allora è sempre stata offerta alla contempazione dei vescovi milanesi.