L’Arcivescovo ha compiuto la sua undicesima visita “feriale” nel Decanato di Appiano Gentile. Incontrando nel Teatro Nuovo di Binago i fedeli laici, i sacerdoti e tutte le realtà del territorio, ha spiegato l’importanza della Comunità pastorale come fattore di crescita

di Annamaria BRACCINI

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Diciassette parrocchie, cinque Comunità pastorali, di cui tre in via di costituzione, quasi 53 tremila abitanti residenti in 13 Comuni dal forte e antico radicamento cristiano. È il Decanato di Appiano Gentile, Zona II, in cui il cardinale Scola giunge per la sua undicesima visita pastorale, che si svolge nel Cinema Teatro Nuovo di Binago, alla presenza del Vicario di Zona monsignor Franco Agnesi, il decano don Giuseppe Conti e il parroco binaghese don Carlo Monti.

Le parole del Decano – «Eminenza ci aiuti a crescere, ci insegni a non chiuderci nel privato o nelle nostalgie del passato, ma a prendere il largo con fiducia, soprattutto per la missione dei fedeli laici nei nuovi scenari e nel territorio» -, avviano l’incontro aperto da una riflessione preliminare dell’Arcivescovo: «Mi sono chiesto cosa muove tanta gente a lasciare le proprie case, magari dopo le fatiche di una giornata di lavoro, per essere qui come voi stasera, in un mondo dove la figura del Vescovo è sempre importante, ma non più circondata da quella sorta di aureola come era fino a pochi anni fa. È perché abbiamo un lunga storia in comune. Mi impressiona sempre pensare alla cattolicità della Chiesa, secondo il significato del termine “cattolico”, che significa dire le cose “secondo il tutto”. Noi siamo, infatti, l’ultimo anello di una storia lunghissima. Non esiste ragione più grande per mostrare la bellezza e la verità, il nostro avere in comune l’esistenza di Cristo che ha voluto rimanere tra noi attraverso l’Eucaristia. La storia che abbiamo in comune è, quindi, assai più importante della parentela del sangue e dello stare in una relazione materiale. Questo è il motivo che mi rende entusiasta della possibilità di incontrarvi, in una visita che vuole rafforzare questa parentela in Cristo». Un incontro che, appunto, «non è una riunione, ma un’assemblea ecclesiale, che prolunga l’Eucaristia». È questa la prima fase della visita “feriale”, cui ne segue una seconda «attraverso la quale entrare, il più possibile, nel concreto affrontando le diverse situazioni, aiutati dai sacerdoti, dai Decani e dal Vicario di Zona» e, infine, una terza conclusiva, che vedrà i fedeli «soggetti attivi nell’individuare, da ciò che emergerà, l’azione».

Se questo è l’andamento della Visita, vi è poi naturalmente, il contenuto centrato – come già indicato nelle Lettere pastorali degli anni scorsi – sui quattro “pilastri fondamentali”: un’educazione al pensiero di Cristo e al gratuito che, nutriti dall’Eucaristia e della Parola di Dio, siano capaci di arrivare alla comunicazione dello stile di vita cristiano «che a noi sembra il più conveniente per il compimento della persona». Persona che deve essere aperta al mondo, per usare un linguaggio papale, «guardando il mondo dalle periferie». Successivamente, il “passo” più specificatamente legato alla Lettera pastorale per il biennio 2015-2017, Educarsi al pensiero di Cristo”: «Con il Consiglio episcopale milanese, ci siamo infatti accorti che la malattia attuale, la “Chernobyl” delle Chiese in Italia, è la frattura tra la fede e la vita che, già intravista dal giovane Montini nel 1934 legata alla cultura, oggi è ovunque. Abbiamo dunque pensato a come superare tale dualismo. È vero che meno fedeli sono praticanti, ma la partecipazione attiva e consapevole all’Eucaristia è incomparabile rispetto a qualche decennio fa. Tuttavia, accade che la pressione della mentalità dominante non permetta di vedere più il nesso tra l’Eucaristia celebrata e i criteri con cui si fronteggia il quotidiano. Per questo ci siamo rifatti alla frase di San Paolo – “Noi abbiamo il pensiero di Cristo» -, che non vuole indicare alcuna supremazia, ma definisce lo sguardo con cui guardare il concreto della vita che riguarda ognuno, come l’educazione dei figli, il lavoro, l’edificazione di una società civile giusta, il modo di affrontare le gioie, la sofferenza e la morte». Insomma, si tratta di «sviluppare quello sguardo cristico sulla realtà, in un momento che ci chiede di cambiare molto a livello personale e comunitario».

Poi, le domande elaborate attraverso i gruppi, le Commissioni, i Consigli pastorali. Si parte con Morena che, col marito diacono Luca, collabora alla Pastorale familiare e chiede come promuoverla e renderla più incisiva. Marcello sottolinea la piaga dell’aborto e spiega: «La cultura dominante non difende la vita, specie quella nascente. Quale azione concreta si può compiere per scuotere credenti dall’assuefazione a questa deriva?». Dario, diacono permanente, domanda «come crescere nella Comunità pastorale».

Anzitutto a quest’ultimo interrogativo risponde il Cardinale: «Chiediamoci perché il cardinale Tettamanzi ha avviato le Comunità pastorali. Non certo per il venir meno di una stima nei confronti della parrocchia, che infatti significa “chiesa vicino alle case”, ma perché essa non ha mai potuto rappresentare da sola tutta l’esperienza ecclesiale tanto che, nella storia, assistiamo a diverse forme del suo inserimento in un contesto più grande e diocesano. La parrocchia non si è mai concepita come un’entità assoluta, così ora si tenta di affrontare insieme aspetti che a cui la singola parrocchia non potrebbe dare risposta, quali la Pastorale giovanile, la cultura, i temi politici e sociali. Se la realtà cambia, e lo fa velocemente, bisogna avere il coraggio di cambiare. Il punto è avere ben chiara la ragione per cui facciamo la Comunità pastorale, il cui scopo è far crescere un’esperienza che sia attrattiva per i nostri fratelli uomini, appunto perché non possiamo perdere di vista le sfide di oggi. Quindi, non è solo la diminuzione del numero dei preti, comunque innegabile (in Diocesi ordiniamo, all’anno, una media di diciotto nuovi sacerdoti e ne muoiono 53-54), ma una direzione di cammino ad aver ispirato la Comunità pastorale». D’altra parte, è la stessa società plurale, «con le sue molte visioni della vita che si incontrano e si scontrano», a rendere necessario l’esporsi, proponendo «ciò che crediamo giusto. Ma questo, ormai, non lo può fare una parrocchia da sola. Bisogna avere l’esperienza e il dinamismo per imparare lentamente a conoscerci, per mantenere tutto quello che di buono abbiamo, ma non riducendo la Comunità a una somma di servizi e di iniziative, anche se belle».

La strada sarà ancora lunga per tale comprensione e perché la scelta «si assesti» – «credo che ci vorranno ancora dieci o quindici anni» -, ma ormai è chiaro che la via non può che essere questa. E lo ribadisce Scola, scandendo: «Se la comunione tra noi è debole, c’è un’unica alternativa in senso negativo, la parola politica, ossia i nostri rapporti diventano politici. La comunione implica una stima previa per l’altro: questa è la base della formazione del fedele, prete o laico che sia. Bisogna che il respiro della parrocchie si ampli, che sia comunionale e non politico. Questo è un vizio del clericalismo, che crea la mormorazione e, comunque, ci logora e ci rende noiosi. Questo è il problema vero relativamente ai giovani che non riusciamo più ad avvicinare, perché chi vuole conoscere una cosa noiosa?».

In tale logica, la sintesi è chiara: il concetto della Comunità pastorale non annulla la comunità parrocchiale, ma fa fare un salto di qualità: «Questo si rende evidente se si parla di famiglia come Chiesa domestica e soggetto di evangelizzazione». L’Arcivescovo, richiamando il suo recente incontro milanese in una casa dove ha dialogato con alcune famiglie secondo una formula che intende replicare in ogni Zona pastorale, nota: «Il corpo familiare, come tutto nella Chiesa, deve avere il cardine nell’incontro. In questo sono importantissimi i Gruppi familiari».

L’esempio è la tragedia stessa dell’aborto, «espressione di una pesante involuzione delle società più sviluppate. La risposta adeguata a questa terribile realtà è la testimonianza pubblica, coraggiosa della bellezza della vita, accolta e accompagnata fino al suo compimento naturale che, per noi, vuole dire l’abbraccio del Padre. Si tratta di comunicare questa convinzione e trovare, di volta in volta, i mezzi e modi realistici per renderla pubblica. Tra essi il più efficace è la testimonianza diretta da persona a persona. Contro l’aborto dobbiamo agire certo con più decisione rispetto a quanto abbiamo fatto negli ultimi dieci anni, ma anche noi dobbiamo cambiare, passando dalla “convenzione alla convinzione”. Se non testimoniamo la bellezza della vita, come faremo a convincere chi dice che si nasce, si muore e si finisce nel niente? Ricordatevi che voi laici non siete clienti della Chiesa, avete piena titolarità, ma dobbiamo trovare tutti insieme il senso».

Infine, Riccardo chiede della Pastorale giovanile: «Quel che faceva Gesù, seppure con ben diversa potenza, ci riguarda tutti. Una Pastorale giovanile seria è il luogo dove si vive e si propone uno stile di vita, non solo nel proprio paese, ma, per esempio, all’università, mentre invece tante volte ci vergogniamo di dirci cristiani. Il cristianesimo è realismo puro, perché Cristo parte sempre dal bisogno umano, ma fa crescere il desiderio».

Annamaria parla di prossimità. «Oggi pomeriggio ho incontrato le 59 realtà che si occupano di grande emarginazione – racconta Scola -. Si calcola che siano cinquemila coloro che dormono per strada, 2700 accolti nelle strutture del Comune di Milano e di diverse articolazioni. Occorre che l’educazione al gratuito divenga lo stile delle nostre opere di volontariato, che pure sono commoventi. Dovremmo sperimentarla in maniera stabile, senza avere la presunzione di risolvere il bisogno – per questo ci sono le opere -, ma offendo solo noi stessi, nella semplicità. Così, come in una spirale, la nostra vita cresce. La delega della gratuità non è accettabile, tanto che la verifica della bontà di una comunità si vede se fa fiorire la persona e fa crescere la sua libertà».

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