Il cardinale Scola ha compiuto la Visita Pastorale nel Decanato di Trezzo sull’Adda, in Zona Sesta. Nella chiesa dei Santi Martiri Gervaso e Protaso gremita, l’Arcivescovo ha indicato la necessità di un «nuovo sguardo con cui affrontare le difficoltà del presente che ci veda attori nel comunicare la bellezza dell’incontro con Cristo»
di Annamaria BRACCINI
Accompagnato dagli Scouts, il cardinale Scola entra, tra gli applausi, nella bella e antica chiesa dei Santi Martiri Gervaso e Protaso a Trezzo sull’Adda, in cui i fedeli si affollano ovunque, tanto che molti rimangono in piedi.
È l’attesa Visita pastorale “feriale” per il Decanato di Trezzo, ampio angolo della Diocesi in Zona Sesta, che conta sessantaseimila abitanti e quindici parrocchie.
I Gonfaloni, i Sindaci, le Autorità civili e militari, i sacerdoti del Decanato e i religiosi della Provincia Italiana dei Carmelitani Scalzi, che nel territorio hanno al Casa di preghiera e per gli Esercizi spirituali, gli Alpini, i fedeli, sono l’immagine viva di un incontro «prezioso per le nostre comunità, salde nella fede e che cercano di crescere con il pensiero di Cristo», dice, nel suo saluto di benvenuto, il decano don Alberto Cereda, responsabile anche della Comunità pastorale di Trezzo, “San Gaetano di Thiene”. Accanto all’Arcivescovo anche il vicario di Zona, monsignor Maurizio Elli.
«Qui la Chiesa è rispettata e osservata, ma ci chiediamo come comporre la Pastorale ordinaria, che tanto assorbe, con un nuovo sguardo», nota ancora don Cereda.
E proprio dalla natura di ciò che si sta vivendo – «un’assemblea ecclesiale, prolungamento di quella che lo è per eccellenza, l’Eucaristia» – prende avvio la riflessione del Cardinale.
«L’Arcivescovo vi visita perché insieme possiamo approfondire il rapporto con Gesù e, quindi, far crescere l’amicizia tra noi. Questa è un’assemblea ecclesiale costruttiva e non una riunione, dove può avere spazio anche la critica, ma in una proposta del positivo. Tale assemblea si pone, inoltre, all’interno della Visita pastorale che è dovere del Vescovo, come indica specificamente il Direttorio nel quale si dice che la Visita deve promuovere la coralità nella preghiera e nell’ascolto del Magistero del Vescovo».
Poi, la definizione dell’aggettivo “feriale” – «perché vogliamo che questo gesto entri nella quotidianità» – e la scelta del Consiglio Episcopale per questa Visita che si prolungherà fino al maggio 2017. «Al contrario di ciò che avveniva nel passato, la prima tappa è con il Vescovo, anche se viene preparata con un lavoro attento della Comunità (che il Cardinale loda, in questo Decanato, per l’impegno profuso e per il documento preparatorio inviatogli), mentre la seconda tappa viene guidata dai Vicari episcopali, con l’aiuto dei Decani, dei sacerdoti e dei Consigli pastorali, al fine di entrare nella concretezza dei problemi delle singole parrocchie e Comunità, in modo che ci sia il massimo della capillarizzazione possibile. Infine, la terza tappa nella quale insieme, come attori attivi, individuerete i passi che si devono fare». Se tutti – raccomanda Scola – si devono sentire coinvolti, «il modo migliore per farlo è comunicarlo».
E, dopo le ragioni e l’articolazione concreta, il richiamo sintetico ai contenuti peculiari della Visita stessa, basata sui “Fondamentali” della vita cristiana, secondo la Chiesa di Gerusalemme descritta in Atti 2, 42-47 e “riscritta” «con il linguaggio della gente comune di oggi».
Dunque, radicarsi nell’avvenimento dell’Eucaristia, che rende presente la Passione, la Morte e Risurrezione del Signore; imparare ad amare, ossia educazione al gratuito; educazione al pensiero di Cristo; semplicità e libertà con cui arricchire la Comunità ecclesiale e, con le debite distinzioni, quella civile, comunicando la bellezza della vita cristiana, al fine di «portare fuori dalle chiese, nel quotidiano, quel sensus fidelium, che pure esiste ed è consapevole, con un rinnovato slancio, superando il fossato tra fede e vita ».
«Il nostro compito è di ridurre, almeno in parte, questa frattura – pensiamo ai tanti battezzati che hanno perso la strada di casa – affrontando la difficoltà del nostro tempo, mentre oggi abbiamo la tentazione di giudicare mondanamente quanto ci accade» scandisce l’Arcivescovo, prima delle domande. Interrogativi secchi e serrati: “Come resistere alle ubriacature del fare?”, “Per vivere nel campo che è il mondo, una strada può essere la nascita di tante piccole Comunità nella parrocchia che così diventi comunità di comunità?”
«Tutti noi siamo immersi quotidianamente nella vita reale che è fatta di affetti, di lavoro, di riposo, di gioie e di dolori, del grande compito educativo e del tentativo di creare vita buona nella società e da questo punto di vista occorre denunciare un primo fondamentale errore, quello di parlare dei “lontani”, che è una categoria sociologica e non descrive la condizione di tutti i nostri fratelli uomini. Ogni donna e uomo ha bisogno nell’esistenza, di un senso, che vuole dire significato e direzione, e ciò riguarda tutti. Quindi, occorre smantellare l’idea che il cristianesimo sia un’esperienza solo per alcuni, un “dentro le mura” che spesso ci ha visto incapaci di sostenerci, in ritirata, chiusi intorno a un Campanile», sottolinea il Cardinale che mette in guardia da un ulteriore trend, strettamente collegato all’idea di questa chiusura, «che ha fatto sì che moltiplicassimo le iniziative, pensando di attirare le persone».
Da qui, il “cuore” della riflessione: «Il cristianesimo non è un progetto, una strategia, è proposta aperta a tutti e che deve essere libera dal risultato. Dobbiamo saper passare da un cristianesimo per convenzione a uno per convinzione. Il problema di fondo è che si deve vivere, come dice san Paolo, Cristo in ogni aspetto della nostra vita e sostenerci: questo è il senso della Comunità cristiana».
Un’attitudine – questa – che trasforma lentamente la nostra umanità e permette nell’esperienza quotidiana, di comunicare ciò che siamo, al di là di nostri limiti e difetti umani, «perché il Signore sempre ci perdona».
Il pensiero è al dramma e al martirio dei cristiani perseguitati, ai campi profughi come Erbil «nel quale, tuttavia, in gente che ha perso tutto in una notte, ho visto la fiducia, proprio perché il loro cristianesimo è vissuto per convinzione», ricorda Scola.
La questione, seppure in situazioni tanto diverse, è sempre la stessa, la testimonianza diretta e vissuta, perché «la riforma della Chiesa implica la riforma della nostra persona». L’esempio è semplice: «è evidente che, se l’unico scopo della vita sono il potere e il denaro, cambia anche il modo di amare e di rapportarsi agli altri; che se credo alla vita eterna e rivedrò i miei cari, muta la modalità di comportamento quaggiù».
L’auspicio è di ricordare quando è avvenuto l’incontro con il Signore che attualizza il battesimo e che deve essere vissuto nella perseveranza e nella fedeltà ai quattro pilastri già indicati. «Da stasera deve scattare in noi la domanda della conversione. Non dimentichiamo che la Chiesa è la strada che Gesù ha scelto per restare nel tempo e che le “comunità di comunità” possono essere belle se non diventano strutture costruite a tavolino, ma via di esperienza di senso».
Poi, il secondo giro di domande in cui si chiede della istituzione di “Oasis”, di dialogo sul territorio con la comunità islamica, «vista la sua esperienza, come realizzarlo» e di famiglia.
«La mia personale impressione è che ciò che è toccato alla Francia, possa succedere anche nel nostro Paese. Il problema è che, per lungo tempo, non ci è interessato per nulla il mondo islamico, finché, ora, con il fenomeno migratorio – che non è un’emergenza, ma un dato strutturale che ci occuperà per decenni – non siamo stati messi davanti alla necessità di convivere», osserva subito Scola, che proprio per conoscersi e comprendersi meglio tra le due sponde del Mediterraneo ha fondato quindici anni fa, ai tempi in cui era rettore dell’Università Lateranense, “Oasis”. La Fondazione e la rivista omonima, diffusa in quattro lingue, assai seguita in Medio Oriente, ma che in Europa «conta solo duecentoventi abbonamenti», un segno anche questo, della poca attenzione dell’Occidente, che ora deve, però, fare i conti con l’immigrazione.
«Siamo un’unica famiglia umana, perché tutti figli di Dio. Di fronte all’immigrazione, dobbiamo considerare i diversi soggetti e livelli della questione per orientarci. Come Comunità cristiana il nostro compito è farci prossimo per una prima accoglienza, ma chi ci guida deve fare una politica equilibrata e intelligente a livello europeo, perché non è pensabile che l’immigrazione diventi un’invasione».
Chiaro il riferimento a un’Europa, come quella dei “padri fondatori” De Gasperi e Schumann che “non c’è”, mentre realtà positive esistono per il grande lavoro che riguarda la società civile – il terzo livello –: «basti guardare le scuole o gli oratori, in cui ragazzi musulmani e cristiani studiano e crescono insieme. Sarà attraverso il meticciamento che, nel tempo, si formerà il nuovo cittadino europeo»
Infine – ultimo, ma certo, non meno importante – il tema della famiglia, su cui l’Arcivescovo insiste particolarmente. «Una delle grandi risorse che abbiamo per non chiuderci “nel Campanile” e per favorire l’“uscita”, come indica papa Francesco, è la famiglia come soggetto di evangelizzazione. Dobbiamo affrontare i problemi con i sentimenti di Cristo, partendo da noi stessi, non per egoismo, ma per principio di realtà, dicendo cosa è per noi la famiglia e la sua bellezza, l’unione di un uomo e una donna fedele e aperta alla vita. Riconosciamo i diritti di tutti, se sono autentici e non capricci che si pretende diventino legge, e dialoghiamo».
E, prima del canto della Salve Regina, della benedizione e del saluto davvero pieno di calore dei fedeli che paiono non voler mai lasciare la chiesa, l’ultima parola, nella sera gelida: «Vi raccomando di cambiare qui e ora, da subito, anche con gesti semplici, facendo un segno di croce la mattina e una preghiera».