Redazione

Ha iniziato a raccontare storie ai suoi nipoti e ai bambini del quartiere. Oggi si definisce un perditempo che racconta favole per il piacere di farlo, ma soprattutto per portare gioia ai più piccoli e, di recente, anche a disabili e anziani. Perché un raggio di sole in corsia non fa mai male.

di Stefania Cecchetti

Lo chiameremo nonno Francesco. Conoscere il suo vero nome non è poi così importante: basti sapere che racconta favole «per amore, solo per amore», per dirla alla Vecchioni. Tutto qui. Nessuna enfasi, nessuna retorica dei buoni sentimenti. Una mattina si è alzato e ha pensato che sarebbe stato bello imparare a raccontare le fiabe ai propri nipoti e ad altri bimbi del quartiere. A raccontare. Non a leggere e nemmeno a recitare, proprio a raccontare. Così si è documentato, “ha studiato”, ha cercato un minimo di impostazione facendosi dare lezioni da un attore. E alla fine ha cominciato: asili, biblioteche, negozi di giocattoli, librerie. Fino ad approdare, recentemente, a una casa di riposo per anziani e a un Cse. Perché le favole fanno bene a tutte le età e possono portare un raggio di sole anche in corsia.

Chi è genitore lo sa: pediatri e psicologi non si stancano mai di ripetere l’importanza della fiaba nello sviluppo dei bambini. E tanti disagi infantili vengono spesso attribuiti proprio alla scomparsa delle favole, vere e proprie autorità sul piano pedagogico e psicologico. Ma chi è genitore sa anche quanto sia difficile in una società come la nostra, che stritola i tempi della famiglia e chiede sempre di più ai trenta-quarantenni, trovare non solo il tempo ma la tranquillità necessaria per questo momento di intimità genitore-bambino.

Nonno Francesco ha pensato che i nonni avessero il tempo e la disponibilità giusti proprio per colmare questo vuoto. Ai bambini fanno bene le fiabe, ma soprattutto fa bene vedere un adulto – anzi, un anziano – che ha voglia di parlare con loro. Non lo stereotipo del nonno grigio e nostalgico, che legge da un libro, seduto su una sedia a dondolo (come molti libri illustrati ancora lo raffigurano). Ma un nonno che si mette al loro livello, seduto su una sediolina da asilo, e racconta una storia dopo averla fatta sua. Uno che si mette in testa un cappellino e comincia dicendo che la fiaba salta fuori dal cappello e va a nascondersi in un libro. Dalla testa di Francesco, al cuore dei bimbi. Che nel quartiere lo fermano e gli dicono: «Ciao, nonno Francesco».

Che lui provenga da anni di volontariato, che frequenti regolarmente la comunità ecclesiale, poco importa. Non è tanto il fatto di fare un “servizio”, quello che colpisce e l’originalità della proposta. E poi nonno Francesco racconta favole solo perché gli piacciono e perché vuol bene ai bambini. Anche a quelli meno fortunati: da un po’ di tempo Francesco legge le fiabe anche ai bambini disabili, a volte con handicap così gravi da non riuscire nemmeno a seguire. Ma non importa: con l’aiuto di un’educatrice nonno Francesco racconta le favole a puntate, facendole durare un mese, coinvolgendo i ragazzi con la gestualità e con attività come il disegno.

Sempre con l’attenzione, però, a non perdere in spontaneità e umanità. Perché la differenza tra un’esperienza come la sua e quella dei clown di corsia, per esempio, sta proprio nella semplicità: il clown ha comunque un atteggiamento teatrale, un costume, una parrucca. Inevitabilmente il messaggio è più costruito, c’è più tecnica, meno intimità.

Anche con gli anziani non autosufficienti l’esperienza è molto interessante. Francesco in questo caso non racconta vere e proprie favole, le inventa a partire da fatti quotidiani o dalle letture più diverse. Unico denominatore comune: si tratta sempre di storie d’amore, perché così tutti possono ricordare un momento del proprio passato. Gli anziani ammalati tendono a essere molto introversi, ripiegati sulle proprie sofferenze e preoccupazioni. Se riescono ad ascoltare il racconto è possibile che si rompa questo isolamento e che si riduca la loro tensione interna. A nonno Francesco, che si definisce solo un perditempo, questo basta già per essere contento e continuare a fare il suo “mestiere”: arrivare in punta di piedi, raccontare e andarsene. Senza chiedere niente di più.

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