Redazione

Il diacono Enzo Petrolino, presidente dell’associazione “La comunità del diaconato in Italia” fornisce una lettura del rapporto tra ministero familiare e ministero diaconale in sei punti, sottolineando la necessaria unità ed inscindibilità tra sacramento del matrimonio e diaconato.

di Enzo Petrolino

Per individuare in modo chiaro e con una prospettiva corretta il «qui e ora» del rapporto tra ministero familiare e ministero diaconale, è necessario tenere lo sguardo sull’orizzonte concreto e ben definito della realtà ecclesiale italiana, collocando tale rapporto in una stagione storica che si apre all’insegna di grandi controversie e di nuove sfide etiche, sociali ed ecclesiali. Una realtà, quella del ministero diaconale e familiare, che ha bisogno di risposte concrete e diversificate, come di un migliore discernimento dei «segni dei tempi».

Il ripristino del diaconato è sicuramente un segno che la Chiesa pone per illustrare concretamente la sua missione, la sua diaconia. Ed il conferimento del diaconato agli sposati, che è stato sicuramente una grande ricchezza per la chiesa, ha posto e pone tuttora alcuni problemi per il fatto che coesistono nella stessa persona due sacramenti: il matrimonio per lo stato di vita e il diaconato per il ministero.

Sappiamo bene che un corretto discernimento della vocazione al diaconato comporta un itinerario piuttosto complesso, in quanto deve coinvolgere la comunità, il presbitero responsabile, il delegato vescovile per il diaconato, quindi il vescovo, e soprattutto la moglie e la famiglia.

Il discernimento personale della vocazione allo stato di vita (verginità o matrimonio) deve precedere quello della vocazione al diaconato, proprio perché la chiamata della chiesa al ministero si manifesti nei confronti di chi ha già chiarito soprattutto a se stesso la via personale di santificazione da intraprendere. In tal modo, poiché il diaconato può essere conferito sia ai celibi che agli sposati, condizione per l’ordinazione non è di per sé un certo stato di vita, ma il suo discernimento definitivo da parte del soggetto interessato.

Un dato certamente nuovo e che fino a qualche tempo fa era estraneo alla mentalità del popolo: la figura di un ministro ordinato che fosse sposato. Chi esercitava il ministero ordinato era solo il celibe. Chi stava sull’altare, vestendo i paramenti sacri, era soltanto il prete. Questa esperienza plurisecolare ha finito anche per condizionare nel subconscio diverse mogli di possibili candidati al diaconato, che non se la sono sentita di dare il loro consenso per l’ordinazione del proprio marito. E tutto questo per una sorta di radicalismo evangelico che considera la vocazione al dono di sé, alla comunione con Cristo e con la chiesa, alla povertà, alla carità, non come la consacrazione fondamentale che deriva dal battesimo ed è, quindi, di tutti i cristiani, sposati o non sposati, ma come propria soltanto dei presbiteri e dei religiosi, che non sono sposati e che per questo possono anche dedicarsi con totale disponibilità e libertà al ministero pastorale.

Allora l’identità del diacono non può essere tracciata partendo da quella del presbitero, in maniera riduttiva rispetto al ministero presbiterale, ma partendo dalla realtà del battesimo, sulla cui radice si innesta, "quel di più" di grazia del sacramento dell’ordine nella sua specificità.

Il sacramento del matrimonio, confermando la grazia del battesimo, è di per sé dono di grazia, che va vissuto non come una diminuzione rispetto al celibato e al presbiterato, ma come luogo privilegiato e peculiare di realizzazione dell’amore di Cristo per la sua chiesa (Ef 5, 32-33).

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