Redazione
Per il cardinale Dionigi Tettamanzi, a 50 anni dalla sua ordinazione sacerdotale, il ricordo di un compagno di studi: tra i tanti aspetti della vita in Seminario, emerge la capacità del futuro Arcivescovo di «star dentro i problemi per capire».
di Raffaello Ciccone
Ripensare ai propri anni giovanili e rivedere i compagni di classe che ti sono vissuti accanto, magari dopo anni, è sempre un’avventura di sentimenti e di sorprese. Tutti lo possono sperimentare quando ci si incontra, per caso o per appuntamenti.
Ma tra sacerdoti, anche se non ci si vede da tempo, sai dove sono i tuoi compagni di classe, che cosa fanno. Li cerchi attraverso la Guida del clero o attraverso la Rivista diocesana. Le scelte e le speranze sono nate e maturate insieme e ci si capisce ugualmente. Le abbiamo progettate e sentite quando eravamo giovani; ce le siamo confidate nelle proposte e nelle discussioni.
Con il cardinale Dionigi sono stato compagno di classe per anni, da ragazzi prima e da adolescenti, giovani studenti di teologia, diaconi e preti. E’ difficile raccontare quello che si è vissuto nella quotidianità, anche perché si rischia di dover fare un panegirico. Siamo stati amici di scuola, di preghiera, di gioco, di studi, di esami.
Raccontare fa tornare alle piccole cose, alle ore di scuola che si svolgevano, una dietro l’altra, alla preghiera che sentiva l’umore del giorno e la liturgia del tempo, alle meditazioni sull’Umanesimo cristiano di padre Ferdinando Bay, o alle prediche di don Costantino Oggioni sulla Parola di Dio e sulla stessa liturgia. Con un contenuto solido quelle prediche aspiravano sempre a una loro scontata escatologia con il modulato frequente: “sempre più e sempre meglio”.
La nostra era una classe, si direbbe, vivace: gli intellettuali, gli sportivi, gli studiosi, gli originali, i vivaci, gli espressivi, i pensosi. Tra questi, c’erano quelli che sapevano costruire collegamenti, ponti e mediazioni nello scorrere dei giorni. Anche in Seminario nascono tensioni. Dionigi (lo chiamavamo così, ovviamente) svolgeva bene questo ruolo, con discrezione e con determinazione. Non si poneva al di sopra dei problemi, ma voleva starci dentro per capire.
Eravamo negli anni Cinquanta: tempo di ginnasio e di liceo con la prospettiva di un esame pubblico finale. Dionigi lavorava con passione, discreto e, nei tempi liberi, imparava a suonare l’armonium come autodidatta. Ma ho sempre davanti agli occhi il suo esame di educazione fisica nella palestra di un liceo classico a Varese nel 1953. Era piccolo tra noi, ma il suo portamento era fiero come un atleta, diritto, pronto al salto del cavallo. Mi è rimasta impressa questa immagine come un segnale del suo carattere.
Nella scuola di Teologia lo sentivo a suo agio e si impegnava a scrivere gli appunti delle lezioni dei professori con maestria: andavano a ruba ed era capace di sintetizzare in schemi e tesi i libri che studiavamo. Addirittura ci sembrava che si divertisse. Sapeva lavorare ed era, per noi, una fonte di notizie e di riassunti. Quando si è amici, ci si scambia quello che si sa fare di meglio. Così scriveva molto facilmente e ciascuno può capirne il significato anche oggi.
Forse i ricordi possono sembrare marginali o superficiali, ma non va chiesto nulla sulla vita personale e religiosa di una persona. Non si può violare il segreto di ciascuno poiché è misterioso a tutti tranne che a Dio. Bastano i segni, le parole, gli interrogativi.
Pregavamo insieme con fiducia, con speranza, con tutte le domande di giovani che speravano di servire il Signore e di servire la Chiesa come sacerdoti. Dionigi esprimeva la sua sensibilità religiosa e la sua attesa anche componendo, per esempio, un Santus. Voleva far tutto bene. In classe divenne abbastanza presto anche un’autorità musicale. Già allora si intendeva bene con l’attuale responsabile diocesano per il Servizio della vita liturgica e il canto, monsignor Giancarlo Boretti.
Ci siamo sentiti, in questi anni, con don Dionigi che ha insegnato in Seminario a circa un terzo dei sacerdoti milanesi viventi, sempre preoccupato di porre lezioni di sicura ortodossia e attento a temi conciliari come la famiglia e il valore del laicato.
Alla discussione della mia tesi di laurea sulla Teologia pastorale agli inizi dell’800 don Dionigi è stato un giudice attento ed esperto. Insegnava Teologia pastorale e si stava allenando a quella “pratica” che poi sviluppò, come neofita entusiasta, nel suo impegno di vescovo ad Ancona, a Genova e quindi a Milano.
Ha sempre amato la sua Brianza, e si sentiva legato alla sua famiglia, alla sua gente, al lavoro semplice e umile dei suoi genitori. La terra alimenta speranze e cultura, desideri e spirito. Il Signore fa germogliare e mantiene nel frutto del lavoro il sapore genuino del pane e del vino. Il cardinale Dionigi ha portato quel gusto e quel sapore nei suoi discorsi e nelle sue scelte pastorali che sentiamo semplici e profonde.