Redazione
Nel 1961 Papa Giovanni XXIII fece chiamare a Roma Giancarlo Zizola perché desiderava che la rete degli otto giornali cattolici italiani avesse un giornalista che si occupasse del Concilio Ecumenico da lui convocato nel 1959. L’inviato "conciliare" ripercorre con noi le strade di allora, cariche di attese e di speranza. Ci invita a coltivare "nuovi linguaggi" per parlare (e farsi capire) dentro e fuori della Chiesa.
di Giancarlo Zizola
Lo “spirito del Concilio” non era una vaga atmosfera utopica e romantica. Posso dire che la maturazione della mia fede e il mio sentire cum Ecclesia deve molto al Concilio. È stata una grazia averlo potuto seguire da vicino per tutte le sue quattro sessioni. Ma è stata anche una scuola teologica e una strabiliante avventura professionale. Io ho ricevuto l’accredito di “vaticanista” nel 1961, proprio quando il Vaticano dava la parola alla Chiesa universale, all’ecumenismo, al dialogo con gli Ebrei. Il grande monolito lasciava il posto alle ricerche e alle discussioni, il regno del dogma si apriva all’opinione. L’oggetto del mio lavoro cambiava sotto i nostri occhi e faceva “notizia”.
Indubbiamente Papa Giovanni aveva voluto il Concilio – e lo disse subito con chiarezza – non per definire punti dottrinali o formulare nuove condanne, ma precisamente per offrire l’antica dottrina in un linguaggio nuovo e con un magistero prevalentemente pastorale. Anche i rapporti con i mass media cambiarono. La prima sessione era interamente sotto segreto. Ma io ero sicuro che il Papa non mi avrebbe disapprovato se avessi rotto il segreto.
Anche La Croix disponeva di un informatore occulto, che era monsignor Jean Villot, sottosegretario del Concilio e futuro segretario di Stato. Era piacevole, anche se faticoso, giocare questa sfida sull’informazione, ma senza saperlo noi aiutavamo la Chiesa a uscire dalla fortezza e a misurarsi con le libertà moderne, anzitutto con il diritto dell’informazione e con i principi della democrazia. I resoconti dell’ufficio stampa sui dibattiti erano accompagnati dalle spiegazioni di esperti teologi, così da trasformare i briefing in un’autentica scuola teologica per i giornalisti della mia generazione. Una fortuna che i vaticanisti venuti dopo di noi non hanno avuto.
Il Concilio è stata una tappa decisiva, ma deve conoscere uno sviluppo o un avvenire. Si svolse nella cultura cattolica occidentale, che oggi non domina più la società secolarizzata, impregnata di linguaggi e modelli del tutto estranei al mondo simbolico e trascendente. La storia mostra che i Concili hanno agito con fasi di ricezione difficili, anche con rifiuti. Il caso del Vaticano II è particolare: il Concilio è stato seguito da un mutamento della società, il Sessantotto, senza precedenti nella storia, non almeno con pari radicalità, rapidità, universalità.
Questa svolta antropologica ha spiazzato il linguaggio e le categorie filosofiche nelle quali si era espresso il Concilio. Bisogna chiedersi, dunque, se esso possa ancora “parlare” alla Chiesa o se abbia bisogno di un nuovo scavo in profondità. In alcuni campi il processo di rinnovamento, lanciato allora, è andato oltre i risultati del Concilio: per esempio, sul dialogo con gli Ebrei, sulla libertà religiosa, sulla pace, sul dialogo interreligioso. È nello spirito migliore del Concilio lo sviluppo impresso da Giovanni Paolo II alla coscienza autocritica della Chiesa con i mea culpa durante il Giubileo, contestando il mito della Chiesa come “società perfetta”, chiusa nella sua autosufficienza. Ma questo non è bastato a sconfiggere la vecchia tentazione della Chiesa di rendersi potente in mezzo al mondo.
Benedetto XVI, che è stato un teologo del Concilio, si è impegnato a percorrere piuttosto la strada della sobrietà e del raccoglimento interiore. La Chiesa sta aprendo gli occhi sul rischio che gli incensi dei mass media e i trionfi mondani rischiano di avvolgerla in una bolla speculativa, ove i dati della crisi della fede vengono facilmente ignorati. La riforma appena avviata dal Concilio appare ogni giorno più necessaria, specialmente nell’ora in cui la globalizzazione offre al Vangelo le migliori opportunità della storia per rifare oggi l’operazione di San Paolo: uscire cioè dal guscio dell’Occidente all’incontro dei “nuovi linguaggi”, come egli aveva portato la prima comunità dei discepoli fuori dal guscio mosaico.